Partiti e politici

Com’è triste questa “sinistra slave”

22 Novembre 2017

C’è chi giura di aver assistito ad un siparietto tragicomico che si sarebbe svolto tra i divanetti del Transatlantico non più di una settimana fa. Il mite Alfredo D’Attorre (parlamentare Mdp laureato in filosofia con un dottorato di ricerca in filosofia e scienze umane) veniva allontanato in malo modo e con sufficienza dal grillino Alessandro Di Battista (quasi due lauree). Motivo della contesa – sembrerebbe – la richiesta di un commento positivo rispetto all’endorsement di Mdp alla candidata grillina (poi risultata vincente) in quel di Ostia.

La scena (qualora confermata) ci racconta molto dell’attuale crisi di identità – e forse di nervi – che sta attraversando una parte politica, quella orfana dei grandi ideali del passato che ormai da troppo tempo cerca di darsi un senso mischiando battaglie in stile Don Chisciotte contro vecchi e nuovi nemici alla spasmodica ricerca di un capo e di un nuovo rapporto con quelle che una volta venivano definite “masse”. C’era una volta la sinistra, quella dei padri nobili e dei grandi ideali, quella di lotta e di governo, delle bandiere rosse e dei megafoni, delle fabbriche e delle cattedre universitarie, delle piazze e dei salotti, delle cantine e delle terrazze, dei grandi registi e delle maestranze. Di quella sinistra e dei partiti e movimenti che l’hanno rappresentata nel secolo scorso è oggi rimasto ben poco, un’eco ormai lontana di antichi slogan e qualche intellettuale superstite. Chi oggi vorrebbe rappresentare ciò che resta di quell’esperienza, proponendosi addirittura come interprete di quella che molti media hanno definito la “sinistra sinistra”, sono gli ex Pd e i frammenti sparsi delle varie “cose rosse” fatte e disfatte dalla Bolognina in poi.

Tuttavia, giudicando i fatti degli ultimi mesi, più che di una “sinistra sinistra” dovremmo parlare di una “sinistra slave”, dove la seconda parola è un termine anglosassone letteralmente tradotto come “schiavo” che definisce anche uno dei ruoli delle pratiche BDSM, ovvero “l’insieme delle fantasie erotiche basate sul dolore, sulla sottomissione e sull’umiliazione che si creano attraverso un disequilibrio di potere tra due o più partner adulti e consenzienti che traggono da queste soddisfazione e piacere”. Per chi non mastica la materia, si tratta del vecchio sadomasochismo con l’aggiunta di nuovi “accessori” e di pratiche più estreme importate dall’estremo oriente. Nel BDSM, lo schiavo è sottomesso psicologicamente al suo padrone (il genere è indifferente, dipende dai gusti) e gode nel suo ruolo. Ovviamente, a scanso di antipatici equivoci, tengo a sottolineare che si tratta di una metafora. Toglietevi dunque dalla testa l’immagine dei vari Bersani, Speranza, Fassina e Civati nudi e legati come insaccati mentre subiscono pratiche dolorose tipo “spanking” (sculacciata) o altro.

Di cosa è schiava la “sinistra slave”? In primo luogo dei suoi rancori e delle sue ataviche divisioni, che la spingono verso scelte cieche, irrazionali e oggettivamente suicide. Il tentativo di accordo elettorale con il Pd – oggi naufragato come previsto – è una sintesi perfetta di questa schiavitù. Sul tavolo della trattativa i democratici avevano messo molta carne, dalle modifiche al Job Act al raddoppio del reddito di inclusione, dalle politiche ambientali all’approvazione delle leggi sullo Ius Soli e sul fine vita. Niente da fare: l’obiettivo della controparte è chiaro da tempo ed è quello di causare la sconfitta e la fine politica di Matteo Renzi. Quel Matteo Renzi che ha praticamente già detto che il futuro premier – come in tutti i sistemi proporzionali – nascerà da un accordo tra i partiti che formeranno la prossima maggioranza parlamentare. Tradotto, difficilmente l’ex sindaco di Firenze tornerà a Palazzo Chigi (salvo improbabili exploit del Partito Democratico), ma questo alla “sinistra slave” non interessa, deve perdere e basta.

Un’altra schiavitù della “sinistra slave” è quella del “capo”. Si va dalla mitizzazione degli antichi leader alla spasmodica ricerca dell’anti-Berlusconi (che ha caratterizzato il ventennio che ci siamo lasciati alle spalle), fino alla goffa ricerca di una faccia da spendere per rappresentare la nascente coalizione. All’inizio si è puntato su Enrico Rossi, poi scartato forse per il suo gergo troppo retrò, poi è arrivato il turno di Giuliano Pisapia, uomo sinonimo di indecisione che alla fine ha scelto di allearsi con il Pd. Infine, dulcis in fundo, il presidente del Senato, Pietro Grasso, è stato incoronato leader a sua insaputa dal capogruppo Sinistra Italiana-Possibile a Montecitorio, Giulio Marcon. La seconda carica dello Stato, tramite il suo portavoce, ha precisato di non aver sciolto alcuna riserva in merito al suo futuro, costringendo Marcon a declassare ad “auspicio” il suo proclama.

C’è poi la schiavitù più evidente, quella verso i nemici. Se per vent’anni la linea di un’intera area politica è stata dettata dall’agenda di Silvio Berlusconi, oggi a quell’agenda cartacea chiusa in un astuccio di pelle con laccature dorate si è aggiunta quella elettronica sincronizzata sullo smartphone di Matteo Renzi. I risultati dell’antiberlusconismo sono sotto gli occhi di tutti: l’ex Cavaliere è ancora lì a dar le carte malgrado quasi vent’anni di malgoverno, conflitti d’interessi, statuette del Priapo mostrate durante le cene eleganti, Ruby Rubacuori spacciata come nipote di Mubarack e potrei continuare a lungo. Quanto al segretario Pd –  il nuovo nemico da abbattere – si tratta di una forma di schiavitù mista: da una parte quella contro un personaggio già considerato un “corpo estraneo” quando si era ancora  tutti nello stesso partito, dall’altra verso quel pezzo consistente di elettorato un tempo fedele ai vecchi leader che oggi si identifica nell’ex premier. A differenza dell’antiberlusconismo – sempre restando sul piano della metafora – l’antirenzismo da sinistra richiama la classica immagine del marito che si evira per far torto alla moglie, ma in questo caso il marito in questione ignora la presenza di un personal trainer incline a prestazioni extra che rendono vano il suo gesto autolesionista. Riassumendo, una sinistra sempre più in confusione e povera di idee tende a vivere in funzione dei nemici da abbattere, e ciò la rende schiava di quei nemici e incapace di proporre una valida alternativa ad essi.

In ultimo, la più recente delle schiavitù della “sinistra slave” è quella verso quel popolo che ormai da tempo non sa più interpretare, quel popolo di cui non riesce più a capire i cambiamenti e le pulsioni. Quel popolo che ha rinunciato da tempo ad istruire scegliendo di inseguirne gli istinti più bassi cercando disperatamente di non confondersi con i populisti, che su quegli istinti fondano il loro violento e instabile consenso. E qui torniamo alla scena iniziale, a quel filosofo che non ha tirato l’orecchio al ragazzo borioso subendone l’umiliante rifiuto. C’era una volta Antonio Gramsci…

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