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Combattere il populismo anche a parole. Una lezione di stile dall’Austria
Partiamo da una doverosa premessa: i giochi sono ancora aperti. Non sarà certo un dibattito televisivo vinto (sulla carta) dalla più esperta Hillary Clinton a rallentare in modo determinante la corsa verso la Casa Bianca dello spregiudicato Donald Trump. Deliziosa la tendenza nostrana (ed europea) a calare a forza i nostri modelli interpretativi su contesti di cui a fatica distinguiamo gli elementi fondamentali, per non parlare delle tendenze sotterranee di cui veniamo a conoscenza, con sgomento, a partita conclusa. È accaduto nel caso dell’annunciata “Brexit”, scenario apocalittico prima escluso a priori e poi affrontato in modo confuso, spesso sfociando nell’inevitabile banalizzazione di un elettorato “ignorante” e “sviato”. Ora che la guida del Regno Unito in fase di de-europeizzazione è nelle mani salde della leader conservatrice Theresa May, abbiamo rivolto tutti i nostri timori verso l’altro lato dell’Atlantico: riuscirà il politicamente scorretto e sgraziato Trump a infrangere il sogno di una vita di Hillary Rodham Clinton? Se la volta precedente era stato l’alfiere della speranza Barack Obama a sbarrare la strada di Washington all’ex First Lady, potrebbe essere stavolta il goffo predicatore della paura ad incarnare per la candidata del Partito Democratico il peggiore degli incubi. Un incubo che, da più parti, definiamo ormai con un termine passe-partout: populismo.
Populista o no, The Donald incarna la nemesi di un certo modo di fare politica: un linguaggio sboccato che scivola con compiacimento nel turpiloquio, una megalomania classificata addirittura come disturbo mentale o caso di narcisismo all’ennesima potenza, una tendenza inarrestabile a sfoderare soluzioni apparentemente banali mutuate da una dimensione ideale nella quale la classe politica è volutamente succube di uno status quo che assoggetta i cittadini e tradisce le legittime aspirazioni della “gente”. Tutto questo inserito in un impasto di sospetto verso qualsiasi forma di liberalizzazione in ambito commerciale e di inclinazione isolazionista che mira a rinchiudere gli americani in una fortezza asfittica, ma ben riparata dai pericoli esterni. Ecco dunque che il linguaggio diventa un’arma fondamentale per plasmare questo tipo di visioni politiche: la parola volgare diventa un ammiccamento all’uomo della strada che mal sopporta astrusi tecnicismi e fumisterie da politici di professione, mentre l’iper-banalizzazione serve proprio a toccare subito il cuore delle questioni, senza troppe divagazioni e inutili aggiunte. Come reagire a tale offensiva verbale? Mario Calvo Platero, commentando per Il Sole 24 Ore il recente dibattito tenutosi alla Hofstra University tra i due sfidanti per la Casa Bianca, ha parlato di “rivincita della competenza”. Il più grande insegnamento tratto dai novanta minuti di scontro tra l’irascibile repubblicano e la fin troppo controllata democratica, ha osservato Platero, è proprio la forza dei dettagli, l’impatto assicurato dalla capacità di “scavare dietro l’istinto della prima reazione” dimostrata dall’ex Segretario di Stato Clinton. La componente istintuale non deve però per forza essere demonizzata come la strada maestra verso il sostegno acritico a slogan privi di contenuti: a pensarci bene, l’adesione sentimentale a parole d’ordine o a determinate visioni politiche appena abbozzate è stata ed è tuttora un elemento imprescindibile della politica. Laddove il consenso va conquistato anche con la forza dirompente delle semplificazioni, da tradurre in un secondo momento in politiche pubbliche che depositino il nocciolo ideale del messaggio all’interno di architetture normative o in misure frutto di un inevitabile compromesso. La competenza, se saggiamente utilizzata, può dunque diventare la base di un linguaggio politico che non rifugge aprioristicamente le semplificazioni, ma che ne adotta di utili per contrastare sul loro stesso terreno le boutade etichettate come “populiste”. È possibile?
L’Austria, Repubblica alpina raramente al centro delle cronache, sembra la prossima vittima designata per essere data in pasto al Moloch populista. Definire “populista” il Partito della Libertà, il cui candidato Norbert Hofer sfiderà il Verde Alexander Van der Bellen per la conquista della Presidenza della Repubblica a inizio dicembre, è piuttosto riduttivo. L’estrema destra austriaca affonda infatti le radici nel mito, difficile da estirpare, dell’unità dello spazio germanofono sconvolto dopo la Prima Guerra Mondiale e ha già messo le mani sul governo nazionale grazie ai trionfi di Jorg Haider tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Sembra ancora tenere, però, il cordone sanitario eretto in seguito dal Partito Socialdemocratico e dal Partito Popolare, costretti a coabitare in litigiosi governi di coalizione pur di sbarrare la strada al carismatico leader Heinz Christian Strache. A Ballhausplatz, sede della Cancelleria, siede oggi il manager di sinistra Christian Kern, subentrato senza passare dal voto al dimissionario socialdemocratico Werner Faymann. Proprio Kern, consapevole di essere potenzialmente l’ultimo ostacolo prima dell’assalto da parte della destra nazionalista, sembra avere ben chiare le esigenze da affrontare per non essere perennemente sulla difensiva. In primo luogo, essendo una figura formatasi in ambito aziendale saltando il cursus honorum all’interno delle gerarchie tardo-novecentesche dei partiti tradizionali austriaci, Kern ha adottato uno stile di interazione con i media che sembra fatto su misura per un Amministratore Delegato. Poco avvezzo alla liturgia delle conferenze stampa post-Consiglio dei Ministri, il Cancelliere ha scelto di intrattenersi spesso dietro le quinte con nuclei selezionati di giornalisti. Anziché prestare il fianco alle consuete domande sul tasso di litigiosità della coalizione di governo, Kern ha scelto un’interlocuzione più spontanea e focalizzata, in modo da trascinare con sé la stampa sul terreno meno infido delle argomentazioni nel merito. Affrontare punto per punto i provvedimenti in esame, spiegare in poche parole le prossime decisioni del Governo, puntualizzare le questioni più delicate con un attento dosaggio di dichiarazioni off the records. Uno stile che ha sorpreso la stampa austriaca, più incline a raccontare le trame e le ripicche quotidiane che si svolgono quotidianamente nel Palazzo. Un approccio di rottura che Kern, uomo d’azienda, intende applicare anche al Partito Socialista, troppo burocratizzato e caratterizzato da processi decisionali lunghi e poco appassionanti. Non si tratta, anche in questo caso, di tagliare il nodo di Gordio della comunicazione interna e della discussione. Il suo è piuttosto un tentativo, ancora tutto da testare, di riportare la forma partito alla dinamicità dei movimenti politici, rafforzandone i legami con la società anche tramite un’interazione più libera con realtà associative quali il mondo dell’ecologismo e dei diritti civili.
Impostare la comunicazione con i media sul merito dei singoli provvedimenti anziché sulle sfibranti lotte di potere che contraddistinguono il percorso quotidiano di un governo di coalizione. Far ripartire la vita interna di un partito tradizionale non tramite generici richiami alla scarsa adattabilità dei suoi apparati decisionali, ma stimolandone il dibattito tramite una maggiore apertura alle istanze meno strutturate, ma altrettanto legittime, della società. Il populismo, sembra suggerire l’interessante esperienza austriaca, si combatte anche con le sue stesse armi, affinate in base ai propri scopi: semplificazione per intervenire in modo più incisivo sul dibattito pubblico e inclusione per catturare con risposte più flessibili le richieste dei cittadini. Un elettorato che sembra spesso dominato dalla rabbia nel denunciare i problemi, ma che non ha mai smesso di cercare soluzioni.
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