Partiti e politici
Che felicità per la destra essere legittimata dalla sinistra (e il contrario?)
Se possibile, qui in Italia, tutto cominciò il 23 Novembre del 1993 – guarda caso proprio la nuova serie di Sky – a Casalecchio di Reno, presentazione di un Euromercato di sua proprietà, quando al Cavaliere venne posta la seguente domanda: «Se lei votasse a Roma, chi sceglierebbe tra Fini e Rutelli?». La giornalista della sede Ansa di Bologna che aprì la questione si chiamava Marisa Ostolani e va ricordata perché sono pochi i giornalisti che fanno domande visionarie (cioè intelligenti) e sono ancora meno quelli che ricevono risposte che lasciano traccia nella storia. Fatto sta che Berlusconi si espresse così: «Io credo che lei la risposta la conosca già. Voterei certamente Gianfranco Fini». Da lì in avanti, la storia cambiò nel senso che tutti avete vissuto. Dire in quel tempo “io voto Gianfranco Fini” voleva dire caricarsi di una grave responsabilità. Significava innanzitutto dire “io voto un fascista”, né più né meno, e significava soprattutto, dall’alto di un imprenditore superfamoso della ben nota «trincea del lavoro», offrire a un uomo politico delle “estreme” un ombrello protettivo e democratico di notevolissima caratura. Fini avrebbe potuto immergersi cento, mille, volte nella purissima acqua di Fiuggi, come poi fece, ma quel sigillo di buonissima condotta gli consentì di sdoganarsi con largo anticipo.
Per parlare di destra e sinistra che tendono oggi ad annullarsi in un terzo “luogo” ideale senza valori condivisi se non quelli europei e della propria bandiera (la Francia ne è la sintesi perfetta), non è insensato ricordare lo spostamento destra-destra che avvenne tra Gianfranco Fini e Silvio Berlusconi. Fu quello il primo, vero, spostamento a sinistra della destra – alla sinistra della destra ovviamente – che sino a quel momento aveva vissuto nella sua riserva indiana. Pensandoci oggi, a 24 anni di distanza, dobbiamo rilevare che il tentativo di riportare al centro del villaggio i voti di destra fu certamente visionario da parte di Berlusconi, oltre che egoisticamente produttivo. E quel centro, se possibile, è rimasto immutato negli anni, chi è riuscito a presidiarlo, chi è riuscito ad occuparlo, si è poi rivelato vincente. Vincente sul breve, magari, ma vincente (ma questa è più storia di architettura istituzionale).
È chiaro che al nostro tempo, al tempo di un presidente francese dal passato di sinistra che sceglie un premier dichiaratamente di destra, ci si può porre la seguente considerazione: come mai la destra viene legittimata dalla sinistra, essendone oltremodo felice, e non avviene invece il processo contrario? È forse la domanda chiave che quelli di sinistra dovrebbe porsi più spesso per capire dove stanno sbagliando.
Sul Corriere, un politologo autorevole come Dominique Reyné, docente a Sciences Po, direttore della Fondation pour l’Innovation politique, non ha molti dubbi sull’evaporazione delle vecchie divisioni del novecento: «Emmanuel Macron ridisegna il panorama politico, essere di destra o di sinistra non conta più, il punto è essere pro o contro l’Europa. È una scommessa molto coraggiosa e rischiosa, anche perché in caso di fallimento sarà una catastrofe». Sui possibili rischi di una contaminazione politica del terzo tipo, Reyné non ha certezze, anzi riesce solo a farsi domande: «Come reagiranno gli elettori di sinistra alla nomina di un premier di destra? Questa situazione porterà a una crescita in Parlamento dei deputati della sinistra radicale che fa capo a Jean-Luc Mélenchon? E se invece la reazione di tanti elettori fosse di scendere in strada? Se il parlamento diventa un luogo consensuale dove la destra e la sinistra lavorano insieme, la lotta politica potrebbe spostarsi altrove. C’è il rischio che nasca un’opposizione extra-parlamentare».
Senza immaginare spericolati parallelismi che non avrebbero alcun senso, si può sostenere che Matteo Renzi arrivò ben prima di Macron a immaginare quel terzo luogo ideale in cui destra e sinistra si confondono sino a mischiarsi. Restiamo ai fatti, evitando le tifoserie. In uno dei suoi primi discorsi da leader, il segretario del Partito Democratico disse con rara chiarezza che il suo obiettivo sarebbe stato quello di pescare voti nello stagno della destra, facendo incazzare mezzo mondo (di sinistra). E lo disse come primissimo obiettivo, prima ancora di declinare i principi ispiratori della sua sinistra e quello probabilmente fu il suo errore (o l’orrore?) strategico. Ma lo disse, spiegandolo anche: se con i nostri soli voti «abbiamo non vinto», dobbiamo allargare la platea dei nostri elettori e come? Con i voti della destra. Fu così che, sospinti da un ragazzo di buonissime speranze, dalla rottamazione facile e dalla disinvoltura politica di un certo spessore, gli elettori di destra si misero in fila per votarlo alle Europee dove il Partito Democratico superò trionfante quota 40%. Ci si è poco interrogati sui motivi che via via hanno portato Matteo Renzi a perdere per strada un buon dieci per cento di consensi e valgono sino a un certo punto i suoi fallimenti o i suoi successi. Vale molto di più che Matteo Renzi, come ogni altro leader italiano, risponde ancora alle dinamiche dei partiti, con principi, limiti e valori. Da un partito e dalla sua storia puoi disintermediarti fin che vuoi, ma la storia avrà spesso il sopravvento sulle migliori intenzioni (o peggiori, a seconda dei punti di vista). Ti ingabbierà, quando vorrai volare via sarai accusato di tradimento e allora risulterà impossibile quel’impresa di rubare porzioni di territorio al nemico che nel frattempo avrà mosso il proprio partito a difesa di quei valori che tu vorresti sottrargli.
Un mondo senza partiti, dunque. Potrebbe essere quello il mondo ideale, in cui declinare le proprie idee sul mercato delle opzioni politiche per verificare quanto sono gradite, battendosi dunque tutti a mani nude e senza rete? Tutto questo ragionamento ha una sua fragilità, pensando ingenuamente che il mondo senza partiti sia un mondo senza storia. Non è così. Lo dimostra in maniera palmare proprio l’esperienza francese. Per il momento sta riuscendo in laboratorio soltanto una delle due opzioni, esattamente quella che porta gli elettori di destra a seguire il pifferaio che si è mosso a sinistra (pur con tutte le protezioni liberiste, banca Rotschild bla bla bla), e non il contrario. Da destra verso sinistra e non viceversa, come è possibile? È forse più rassicurante la sinistra sul piano dei principi, in un mondo di disuguaglianze evidenti? Certamente sì. È un mondo, quello di sinistra, in cui il tono culturale, pur con tutti gli aggiustamenti del caso, conferisce un’allure, una personalità, che la destra (ancora) non può offrire? Certamente sì. È strategicamente più produttivo introdurre elementi di destra da una posizione di sinistra, storicamente più rassicurante ed egualitaria? Ovviamente sì. Detto tutto ciò, il mix tra destra e sinistra alterna elementi certamente affascinanti a ipocrisie difficilmente digeribili. Ma ciò che è più paradossale è che questa sinistra a cui la destra oggi riconosce una primazia, ora che sarebbe il momento di raccogliere stinge sino a non farsi più riconoscere.
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