Partiti e politici
Centenario del Pci. Retoriche della “Rimembranza”
Forse, finita la festa, al tramonto del 21 gennaio, vale la pena dare uno sguardo a una falsa discussione,anche sulla scorta di ciò che scrive qui Oscar Nicodemo.
Nelle ultime settimane molti si sono ricordati che è esistito un partito comunista italiano. Peccato che molti abbiano descritto le proprie ansie di un tempo, o abbiano di nuovo riproposto l’immaginario che era a fondamento del loro entusiasmo o delle loro paure.
Così anziché riflettere sullo stato attuale della politica, ciò a cui abbiamo assistito è stata la reiterata narrazione di una condizione, che non c’è più (per alcuni con rammarico, per altri con sollievo).
Una dimostrazione che l’esercizio di riflessione storica è vissuto da molti come cerimoniale celebrativo (nel bene e nel male) comunque come un rito in cui si giudica il passato. In questo confondendo e tra rievocazione e funzione intellettuale di riflettere sulla storia.
Mi spiego.
Riflettere sulla storia indossando le vesti (e soprattutto le retoriche) della rievocazione significa portare il lettore eventuale dentro un tempo, rimetterlo nello scenario di un tempo e poi invitarlo a riflettere se quello evocato o ricostruito sia un tempo per lui (o per lei) auspicabile, desiderabile oppure no. Un esercizio estetico di riflessione, dove conta schierarsi, parteggiare. In breve, dove non serve pensare, ma è preliminare “tifare”.
Esercitare una funzione intellettuale di riflessone sulla storia, implica invece calarsi dentro un tempo, indagarne le emozioni, scavare nei non detti e misurare quanto il nostro presente si nutra (o viceversa non si nutra) di quella scena, quanto il nostro linguaggio e l’immaginario, siano dentro a quello spaccato.
Sia chiaro: la prima funzione non è superata per sempre. Avrebbe un senso recuperarla e adottarla se improvvisamente una mole documentaria significativa si presentasse e ci costringesse a riscrivere le sequenze della scena se, anche, una lettura diversa dei documenti, delle parole, dei gesti ci obbligasse a rivedere la scena della spaccatura.
Ma così non è stato.
Ripensare la storia del PCI avrebbe perciò avuto una funzione pubblica se noi ci fossimo chiesti: che tipo di documenti ho bisogno per provare a capire una storia? E inoltre: quale profilo intellettuale, umano, lessicale connotava quel la scena? Cosa di quella scena (e soprattutto di quell’immaginario) è rimasto nel nostro tempo attuale e capace di attraversare un secolo per ripresentarsi in forma inquieta nel nostro tempo presente? Che cosa quel lessico descrive ancora?
E allo stesso tempo, quel conflitto culturale che bisogno incarnava? Quel tipo di conflitto e di confronto politico non è più parte del nostro tempo perché risolto? Perché non più attuale? Perché inutile? Per disinteresse? Quanto di quel confronto rispondeva a un bisogno ideologico e quanto soddisfaceva una modalità di fare politica?
Certo la storia di un partito è quella della sua classe dirigente, delle sue svolte (per rimanere nel gergo del Pci: “nei suoi ritardi”), ma poi generazioni dopo, quando quella struttura politica non c’è più, la domanda a cui dobbiamo tenare di dare una risposta è: quel tipo di offerta politica (non la sua ideologia) ci servirebbe ancora? Cosa manca oggi, senza nostalgia? Forse la prima cosa che manca è un’idea di futuro, meglio è una reale voglia di futuro. E dunque si potrebbe dire di un progetto. Di una voglia di provare di dare forma al sogno.
Se in queste settimane noi avessimo assistito a qualcosa che apriva questo tavolo di discussione allora questa “rimembranza” sul Pci avrebbe anche avuto un senso. Ma le uniche monete che sono circolate sono quelle della felicità della scomparsa di un partito o della sua nostalgia. Due opzioni che non parlano di futuro: la prima si accontenta di esprimere la soddisfazione del presente; la seconda comunica malinconia senza riscatto. Due dimensioni culturali sterili che parlano a se stesse.
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