Partiti e politici
L’Italia è un deserto da attraversare: se non partiamo, non arriveremo
Un partito democratico a vocazione maggioritaria che si scopre assai esposto ad essere minoranza, e mentre questo succede vede riemergere divisioni interne e correnti: che quando una leadership carismatica che aveva creduto di bastare a se stessa perde il carisma, del resto, gli antichi rituali ritrovano forza, mentre il rapporto con il paese e i suoi bisogni resta stabilmente debole. Un partito di massa fondato sulla rabbia, il Movimento 5 Stelle, diventato enorme troppo in fretta, e senza aver ancora mostrato la capacità di prendere sul serio la fatica di governare, la necessità del compromesso, il bisogno di apprendere e studiare, di guidare e anche di sopire i sentimenti più bui, e non sempre e solo di seguirli. Una “sinistra sinistra” che esiste solo sui giornali, e difficilmente saranno le buone intenzioni di un buon borghese, ex sindaco ed avvocato milanese, a rianimare un percorso politico che, o rappresenta davvero gli emarginati e i bisognosi che stanno per lo più nelle mitologiche periferie del paese, o non è. Quindi, per il momento, non è. La destra ululante di Salvini, quella a vocazione governista ancora retta – sempre e solo – dalla tardiva misura conquistata da Berlusconi ormai ottuagenario: senza eredi, che forse questo ennesimo unicum italiano non è ereditabile.
Alziamo gli occhi. Anzi, allontaniamo gli occhi dalla mappa italiana, e guardiamoci nello specchio del mondo. Dentro a un’Europa, costruzione politica frutto delle più mature scuole politiche del Novecento, che vive in un’era ormai lontanissima, dal punto di vista delle sensibilità diffuse, rispetto a quando fu pensata e concepita. Il 2017 sarà un lungo calvario di elezioni politiche, tutti capitoli decisivi di un lungo referendum a tema unico: Europa sì, Europa no, appunto. Con socialdemocratici e popolari che più o meno dappertutto convolano a giuste nozze d’interessi, sperando che bastino ad arginare l’onda di piena di chi è arrabbiato con l’Europa. Quella stessa Europa che, maltollerata da un numero crescente di cittadini autoctoni, continua a essere però la terra promessa per milioni e milioni di disperati, che arrivano adesso come mai prima: e proprio adesso questa non ci voleva, in un tempo in cui le coperte del benessere occidentale sembrano essersi rattrappite, e quando la paura in casa cresce non è mai una bella notizia per chi è costretto a bussare da fuori. In un mondo così impreparato al cambiamento, da vedere con stupore Donald Trump scalare prima il Partito Repubblicano e poi la presidenza degli Stati Uniti d’America, sconfiggendo – guarda le coincidenze – quello che restava dell’ultimo mito del Novecento americano, cioè la famiglia Clinton. Dopo gli schock iniziati con l’estate del 2007, l’economia mondiale sta ancora cercando il suo new normal e nel nostro piccolo noi stiamo anche peggio. La crisi epocale che ha investito il mondo intero a casa nostra è atterrata con peso specifico ancora più intenso, perché intense erano le contraddizioni strutturali che ci portavamo dietro da troppo tempo, compensandole solo con mezzi tattici: squilibri territoriali tra pezzi di paese produttivo e pezzi che non lo erano; una piramide demografica che presto si sarebbe rivelata insostenibile; un peso fiscale che troppo poco incentiva il lavoro e l’impresa, e serve soprattutto a sostenere un sistema inefficiente, e una burocrazia ampia, invadente, costosa. Erano, questi, altrettanti nodi al collo che già avevano portato all’esplosione della prima Repubblica e poi al battesimo, inconcludente, della cosiddetta seconda.
E oggi, dunque, che qualcuno già evoca la terza, che facciamo? Una terza Repubblica, per di più, che si aprirebbe nel segno di una preoccupante crisi che riguarda il nostro sistema bancario, proprio quello che – avevamo voluto credere – era uscito meno indebolito dalla crisi, rispetto al resto d’Europa. Vedete bene che qui il problema non è fare o no un Renzi Bis, o decifrare il tasso di rischio per lui o per altri dentro agli scenari di possibile congiure nel partito democratico. Il problema vero, semmai, è ritornare ad avere una politica che si prenda la briga di dire la verità riuscendo, insieme, ad avere abbastanza consenso. Una politica capace di riparlare alla società, girando davvero l’Italia, il paese delle fabbriche vuote e dei centrocommerciali pieni, e non certo il paese dei pochi campioni internazionali e dei fighetti glamour che son stati testimonial della rovinosa campagna per il sì al referendum. Una politica che sa tenersi alla larga dal centro di Milano e dai palazzi di Roma, che davvero non rappresentano nulla, in termini di bisogni e, spesso, neppure di meriti.
Si dirà: “E, ma ci vuole tempo, e l’emergenza è subito, e il voto domani”. Verissimo. Ma vale la pena di annotare, almeno, che se mai si comincia mai si arriva alla metà. Vale per la contingenza che viviamo: la strategia di leader carismatici che parlano alle masse senza un rapporto con la società ci ha portato fin qui, e difficilmente il verso cambierà in pochi mesi, solo perché lo vorremmo tanto. E vale, appunto, per tutto quello che serve a costruire il bene di una società e di una nazione: c’è un deserto da attraversare, il cammino può durare anni, ma non finirà, se non lo cominceremo.
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