Partiti e politici
Catalogna, cinque domande cruciali e cinque risposte sul referendum
È praticamente impossibile riassumere nello spazio di un articolo tutti i dettagli storici, politici e giuridici dell’imbroglio catalano.
Come ormai succede regolarmente nel mondo in rete, prevalgono posizioni estreme, spesso costruite su basi di conoscenza fragilissime: essenzialmente sensazioni e simpatie di pelle. O parallelismi con situazioni che c’entrano poco o nulla.
Presenterò quindi la questione come domande e risposte a partire da alcune affermazioni tra le più ricorrenti.
Premetto che seguo la questione catalana dal 1985, quando arrivai a Barcellona e che ho una relazione fortissima da allora sia con la Spagna che con la Catalogna, per molti versi patrie mie più della stessa Italia nella quale sono nato, dato che attorno alla Spagna e non l’Italia ha gravitato tutta la mia vita adulta. Non ho partiti presi, perché le amo entrambe allo stesso modo, e mi fa soffrire moltissimo una situazione di tale divisione nella mia patria d’adozione.
Domanda n.1: Ha la Catalogna una legittimità storica all’indipendenza? Molti affermano che la Catalogna non abbia diritto a richiedere l’indipendenza perché non sarebbe mai stata indipendente in passato. A differenza ad esempio di una Scozia, unita all’Inghilterra solo nel 1707 o del Québec (anche se lì il riferimento va fatto alla colonia francese).
Non è necessariamente vero che sia necessario essere stati indipendenti prima per aspirare a divenirlo di nuovo: con questo ragionamento, nessun paese sarebbe mai divenuto tale. L’obiezione storica in sé è quindi debole.
Diciamo che in un momento dato della storia, una collettività stabilita su un territorio può aspirare a formare un’unità politica statale. Nella storia è avvenuto quasi sempre mediante vie di fatto (guerre, poi seguite da trattati che riconoscono la condizione di Stato che viene progressivamente riconosciuta da altri Stati). Raramente per via puramente democratica sin dall’inizio, ma è legittimo sostenere che in questa fase storica e nel contesto democratico nel quale è situata la Spagna anche come membro dell’Unione Europea la via democratica all’indipendenza (mediante accordi consensuali) sia l’unica accettabile.
La Catalogna non è mai stata indipendente nel senso che noi diamo al termine nell’Europa post – westfaliana, ma sì è sempre stata un’unità politica, culturale ed istituzionale ben definita all’interno di altre entità. Il “Condado de Cataluña” sorse all’interno dell’impero carolingio e poi si unì a quello d’Aragona, venendo poi a dipendere dalla Corona aragonese, ma mantenendo sempre istituzioni proprie (les Corts, che nella tradizione iberica avevano la facoltà di accettare un sovrano e di decidere sul proprio contributo fiscale al monarca). Ancora oggi Barcellona è conosciuta come la “ciudad condal”. L’unione di Isabella di Castiglia con Ferdinando d’Aragona (1469), spesso presentata come data di nascita del regno di Spagna, giuridicamente non lo fu. I due regni rimasero separati fino al 1714, quando il passaggio dinastico delle corone iberiche ai Borboni portò all’ unificazione legale dei diversi regni iberici (Decreto de Nueva Planta del 1715) . I nazionalisti catalani considerano il 1714 data di perdita della loro indipendenza, nel senso di perdita delle proprie istituzioni, abolite dai Borboni. L’aspirazione a una patria propria e alla restaurazione delle istituzioni catalane si rafforzò in epoca romantica e divenne corrente politica alla fine del XIX secolo. Tra il 1918 e il 1919 la Lliga Regionalista di Cambó promosse un forte movimento per l’autonomia catalana all’interno della Spagna e una República Catalana di breve durata fu proclamata nel 1934 nel periodo precedente la guerra civile spagnola (1936 – 39). Il franchismo (1939-1975), centralista ed autoritario, soppresse ogni parvenza d’autonomia, scoraggiando anche l’uso della lingua catalana, abituale nell’uso quotidiano, ma nel 1978 vennero finalmente ristabilite le istituzioni autonome, riprendendosi i termini storici Generalitat (governo) e Corts (Parlamento). L’autonomia catalana ha funzionato bene per vari decenni, governata da un cartello regionalista (Convergencia i Unió) molto abile nel tessere rapporti di mutuo interesse con i governi di Madrid. Ma anche dal partito socialista catalano (PSC).
L’autonomia catalana è, come quelle basca e navarra (nazionalità considerate storiche) diversa e più ampia di quella delle altre quattordici comunità autonome (regioni) che compongono la Spagna, con eccezione dell’Andalusia. A differenza di baschi e navarri, i catalani non hanno autonomia impositiva, ma ricevono trasferimenti mensili da Madrid (sospesi tre giorni fa).
In conclusione, sostenere che la Catalogna non può diventare indipendente perché non ha la legittimità storica per richiederlo è argomento evanescente, se mai fosse davvero un argomento.
Domanda n.2: Ha la Catalogna legittimità giuridica per richiedere l’indipendenza? La costituzione spagnola del 1978, come del resto quasi tutte le costituzioni al mondo, non prevede meccanismi di secessione per una sua parte. Nel caso del Québec fu necessario un accordo politico ad hoc con il governo centrale per indire i due referendum, così come nel caso scozzese (la Gran Bretagna poi non ha costituzione scritta).
L’art. 2 della costituzione spagnola recita: “La Constitución se fundamenta en la indisoluble unidad de la Nación española, patria común e indivisible de todos los españoles, y reconoce y garantiza el derecho a la autonomía de las nacionalidades y regiones que la integran y la solidaridad entre todas ellas.”.
Questo testo indica chiaramente che una singola parte del paese non può definire unilateralmente le modalità di una propria uscita dallo stato spagnolo: non è norma illiberale, è che di solito una costituzione non prevede norme simili, se non per territori d’oltremare che furono colonie.
L’altra comunità che aspira all’indipendenza, quella basca, seguì la via del negoziato con lo stato centrale (Plan Ibarretxe de 2003) e presentò una proposta di statuto autonomo che prevedeva una clausola di secessione. Respinto il piano dal parlamento spagnolo, l’ipotesi basca è stata rimessa nel cassetto.
La Catalogna non ha seguito questa via: la riforma dell’ Estatut del 2006, che anch’essa prevedeva la possibilità di secessione, oltra a definire la Catalogna come nazione propria integrata nello stato spagnolo, fu giudicata incostituzionale dalla Corte Costituzionale e non entrò quindi mai in vigore.
All’interno della Costituzione spagnola non esistono margini per tale cammino, e vista l’impossibilità di stabilire un dialogo “alla scozzese” o “alla québecoise” con il governo di Madrid, in mano al PP, partito con una concezione centralista dell’organizzazione dello Stato, gli indipendentisti catalani, divenuti via via più numerosi da uno zoccolo duro del 15 – 20% dell’elettorato negli anni della transizione democratica al quasi 50% di oggi, hanno cercato di definire un altro cammino: quello dell’autodeterminazione.
Da qui che la convocazione del referendum da parte della maggioranza indipendentista nel Parlament (les Corts) e la conseguente legge di secessione in caso di vittoria del sì siano state legittimamente annullate dalla Corte Costituzionale. È come se un comune o regione italiana dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza: sarebbe atto giuridicamente nullo.
Per antipatico che sembri, e pur biasimando l’inerzia di un governo spagnolo che non ha messo in essere negli ultimi anni alcuna iniziativa di dialogo con i fautori dell’indipendenza, che non hanno mai usato metodi violenti nel difendere le loro idee, l’intervento delle forze dell’ordine di questi giorni è legale (con una riserva sui modi ed eventuali eccessi, che vanno valutati nello specifico), non è una violazione della democrazia come sostengono alcuni osservatori disattenti o di parte.
Si sarebbe dovuto evitare d’arrivare a questo punto di rottura? Assolutamente sì: i due governi, spagnolo e catalano, hanno completamente fallito politicamente.
Domanda n.3: La Catalogna può invocare l’autodeterminazione ai sensi del diritto internazionale?
Il diritto all’autodeterminazione è riconosciuto dal diritto internazionale in caso di occupazione militare da parte di paese straniero, di esistenza di un sistema coloniale e dell’uso della violenza da parte delle forze occupanti. Di fatto, l’autodeterminazione è categoria giuridica nata col processo di decolonizzazione e definita in quell’ambito. Gli indipendentisti catalani fanno un solo esempio, quello del Kosovo, ma è oggettivamente forzato vista la situazione bellica prodottasi in quel caso (per inciso, la Spagna è tra i paesi dell’UE che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo per paura a eventuali usi strumentali di tale precedente).
In tutta onestà, è impossibile sostenere che condizioni paragonabili al caso del Kosovo si diano nella Catalogna di oggi.
Domanda n. 4: Esiste una legittimità politica nella richiesta catalana?
Nonostante il governo del Partido Popular lo neghi, è ovvio che se il consenso per i partiti indipendentisti è cresciuto in pochi anni dal 15 % (i voti che prendeva Esquerra Republicana de Catalunya) al quasi 50% esiste un problema politico che andrebbe affrontato. Come detto, il PP non lo ha fatto. Il PSOE, partito organizzato federalmente e unito al PSC (Partit Socialista de Catalunya) si è detto favorevole a una riforma di tipo federale, che trasformi la Spagna delle autonomie differenziate in uno vero stato federale: questo sviluppo sarebbe stato sufficiente a rispondere alle inquietudini catalane se fosse stato adottato prima dell’accelerazione indipendentista. Oggi siamo probabilmente fuori tempo massimo. Ciudadanos è nato in Catalogna come movimento anti- indipendenza, e seguirà in tutto il PP. Podemos è volutamente ambiguo, così come i suoi alleati catalani (i movimenti che appoggiano la sindaco di Barcellona, Ada Colau), ma si sta orientando sempre più a favore del referendum.
A livello elettorale, le forze indipendentiste cercarono una legittimità elettorale per aggirare l’impossibilità d’un referendum consensuale e si presentarono unite alle elezioni del 2015 (Junts pel Sí), ma senza ottenere la maggioranza assoluta desiderata né in voti (39,59%) né in seggi (62 su 135). A seguito dell’alleanza con la forza anticapitalista CUP (8,21%, 10 seggi) si è reso possibile un accordo per convocare il referendum unilateralmente (senza l’accordo del governo centrale) e approvare le leggi oggi annullate sulle quali si fonda il processo d’indipendenza: il paradosso è che l’indipendenza catalana è sempre stata un’aspirazione della borghesia catalana, che aspira all’autonomia fiscale da Madrid, e oggi ha bisogno dell’appoggio di un movimento radicalmente anticapitalista come CUP, molto più a sinistra di Podemos.
Domanda n.5. E adesso cosa può succedere? Il referendum del 1 ottobre avverrà in maniera limitata ed avrà un significato solo simbolico. Il governo spagnolo invocherà l’art. 155 della Costituzione (una Comunidad Autónoma no cumpliere las obligaciones que la Constitución u otras leyes le impongan, o actuare de forma que atente gravemente al interés general de España, el Gobierno, previo requerimiento al Presidente de la Comunidad Autónoma y, en el caso de no ser atendido, con la aprobación por mayoría absoluta del Senado, podrá adoptar las medidas necesarias para obligar a aquélla al cumplimiento forzoso de dichas obligaciones o para la protección del mencionado interés general) per sospendere l’autonomia catalana coi voti del PSOE e di Ciudadanos, ed essa tornerà a dipendere direttamente dal governo centrale.
Questo potrebbe in realtà rafforzare il campo indipendentista, attirando le simpatie di molti moderati oggi incerti sul da farsi. Prima o poi l’autonomia dovrà essere ristabilita e nelle nuove elezioni regionali l’opzione indipendentista potrebbe emergere di nuovo con forza. In realtà, solo una risposta politica, non giudiziaria, può creare le condizioni per affrontare il problema Questo non succederà finché il PP sarà al governo.
In conclusione, il procedimento seguito dalle istituzioni catalane è certamente illegale, ma è altrettanto vero che il governo centrale non ha fatto il minimo gesto né tentativo per discutere del tema e trovare una soluzione. L’unica risposta è sempre stata: rinunciate. D’altro canto, i numeri non dimostrano che il sí all’indipendenza sia maggioritario in Catalogna. Da qui che l’ipotesi di un referendum negoziato e non unilaterale (dret a decidir) sembri sensata, sempre e quando avvenga mediante un negoziato politico (modello scozzese), dando un’interpretazione aperta al testo costituzionale. Solo il parlamento spagnolo può approvare la tenuta di un tale referendum, non può farlo unilateralmente quello catalano.
La soluzione di questi giorni è quindi il risultato di un non dialogo e di una mancata volontà d’affrontare politicamente e non solo giuridicamente il problema. Il chi sia più responsabile di tale situazione è campo per l’opinione, ma è utile non trascurare i fatti nella loro completezza.
Sembra difficile che la breccia apertasi possa venire colmata a breve termine e dagli stessi protagonisti che hanno portato alla rottura.
Il tema dell’eventuale adesione all’UE, presentata all’inizio dal fronte indipendentista come automatica (lasciamo la Spagna e rimaniamo nell’UE) rimane teorico al momento attuale, anche perché persino in caso di raggiunta indipendenza, la Catalogna dovrà richiedere l’adesione all’UE come nuovo membro, processo che richiede l’unanimità degli Stati Membri attuali. L’assenso del governo di Madrid rimarrebbe comunque indispensabile.
Anche un eventuale divorzio richiederà molti accordi specifici sui temi legati alla separazione, come la ripartizione dei beni pubblici, il pacchetto finanziario d’uscita, le regole sulla doppia cittadinanza.
Siamo comunque molto lontani da quel momento. Adesso è il momento della concitazione e dell’estremismo.
* Stefano Gatto, diplomatico dell’UE, è laureato in Economia Politica alla Bocconi di Milano e master in relazioni internazionali a Madrid (1990). Ha scritto un libro sui parallelismi e no tra la situazione economica italiana e quella spagnola (“Italia e Spagna: Destini Paralleli?” – Lo Spazio della Politica, 2012) ed ha residenza in Spagna dal 1987, anche se è spesso in missioni diplomatiche in diverse parti del mondo.
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