Partiti e politici
Casa nostra e casa loro
Nel suo libro dal titolo “Non pensare all’elefante!”, George Lakoff – linguista americano che da molti anni si occupa dell’utilizzo delle parole nella comunicazione politica – scrive: «In politica vince chi costringe gli avversari a giocare sul proprio terreno. Vince chi mette i propri rivali nelle condizioni di mostrarsi all’elettore come una comparsa insignificante nel frame creato da chi tiene il pallino in mano».
Che il Partito Democratico abbia un serio problema di comunicazione non è certo un fatto nuovo. Tolta una buona partenza – dove molto fece l’effetto novità del logo e l’empatia di un oratore come Walter Veltroni – si è arrivati in poco tempo al balletto del giaguaro da smacchiare, passando dai grotteschi manifesti con gli “spingitori di scritte” di franceschiniana memoria al Bersani in bianco e nero sullo sgabello. Con l’avvento di Matteo Renzi sembrava che qualcosa stesse cambiando e che quel pesante gap potesse essere colmato, presentando un’immagine fresca e più “pop” del partito e del suo leader. La verità è che l’ex sindaco di Firenze è stato molto bravo a lanciare la sua immagine sul “mercato politico”, facendo leva sul rinnovamento generazionale e sul tormentone della “rottamazione” dei leader della cosiddetta “vecchia politica”, uomini che a onor del vero erano già da tempo in fase calante, a cui il leader fiorentino ha dato semplicemente il colpo di grazia. Ma una volta raggiunto l’obiettivo, sono emersi tutti i limiti di uno storytelling incentrato su un singolo e non sulla comunità che avrebbe dovuto e dovrebbe rappresentare. Matteo Renzi ha saputo “vendere” bene se stesso, ma quando ha dovuto “vendere” il Pd è caduto in confusione, iniziando a rincorrere talvolta le destre, talvolta il Movimento 5 Stelle. Uno dei momenti più bassi è stata la gestione della comunicazione del referendum costituzionale, dove si sono alternate parole d’ordine del grillismo (come “tagliamo le poltrone”) ad attacchi respingenti verso chi “osava” muovere qualche fondata critica sull’impianto delle riforme, la famosa “accozzaglia” che poi quel referendum lo ha vinto. In ultimo, si è arrivati alle “card” digitali che tanto fanno discutere, un’imitazione goffa di quelle prodotte dalla Casaleggio Associati con tanto di “condividiamo”. Per lo più si tratta di estratti di interventi o lanci di agenzia di ministri, deputati e senatori vicini a Renzi o dello stesso segretario Pd. Veri e propri pasticci digitali che spesso scatenano sfottò collettivi, come nel caso del tassello che accostava l’ex premier a Francesco Totti o il più recente dedicato al portiere de Milan, Donnarumma.
Ma al netto della comunicazione – che in quanto tale si limita a diffondere messaggi – il problema del Partito Democratico è oggi più profondo e più politico, perché non è ancora chiaro né chi debba rappresentare, né a quale modello di paese ambisca. Si tratta di un nodo ormai arrivato al pettine e che il soggetto politico nato dalla “fusione fredda” di Ds e Margherita si porta dentro dal giorno della sua fondazione. Vero è che Matteo Renzi ha contribuito a rendere tutto ancora più ambiguo, sposando di fatto la tesi (anch’essa presa in prestito) secondo cui destra e sinistra non esistono più e impostando l’agenda politica sui trend (cosa che ormai fanno tutti, in tutte le latitudini), senza però dotare il partito di quell’impianto valoriale che servirebbe a mediarli. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Il Pd insegue un calendario dettato da altri e non sembra in grado di imporre il suo, finendo preda di di quegli altrui frame di cui parla Lakoff.
Arriviamo dunque alla frase incriminata e alla relativa card. Scrivere “Aiutiamoli a casa loro”, non è solo un grossolano errore di comunicazione, malgrado l’atto di estrarla in quel modo a caratteri cubitali dovrebbe essere punito con la crocifissione del responsabile in sala mensa. Il Pd – che non è la Lega di Salvini ma neanche un movimento guidato da un comico dove il futuro candidato premier confonde il Cile con il Venezuela – dovrebbe affrontare la questione dei migranti con una profondità di ragionamento e un’elaborazione delle possibili soluzioni che vada oltre gli slogan, specialmente se quegli slogan sono da tempo utilizzati da altri.
In parole povere, in un mondo governato dalla libera circolazione delle merci, delle industrie che le producono e della finanza, i giganteschi flussi migratori a cui assistiamo oggi sono conseguenze delle disfunzioni della globalizzazione. Non basta quindi mandare aiuti economici all’Africa se “a casa nostra” manteniamo degli stili di vita che accelerano la desertificazione di intere regioni, che si alimentano sulla razzia delle risorse minerarie di alcuni paesi, che consumano il frutto dello schiavismo di intere popolazioni. Un partito di centrosinistra – o presunto tale – dovrebbe mettere sul piatto della bilancia tutte queste variabili, decidere una linea politica e poi cercare di comunicarla nel modo più efficace possibile all’esterno. Semplificando ancora, il Pd dovrebbe dire che per aiutare i migranti economici “a casa loro”, “a casa nostra” bisognerebbe ridurre le emissioni molto più di quanto prevede l’Accordo di Parigi sul clima (quello da cui gli USA di Trump si sono già tirati fuori), alzare di molto i prezzi dei combustibili e delle merci che si estraggono e si producono in quei paesi, imporre a tutte quelle multinazionali che fondano il loro profitto sullo sfruttamento di manovalanza a costi irrisori (direttamente o indirettamente, tramite sub appalti ad aziende locali) dei minimi salariali adeguati. Conti alla mano, aiutare davvero i migranti economici “a casa loro” costerebbe “a casa nostra” molto più che accoglierli, a meno che non si palesi una taciuta volontà di sfruttare i più deboli in nome di una supremazia di razza, di armamenti e di ricchezza economica. Aggiungiamo che un processo di riequilibro che porti risultati tangibili in tempi non biblici dovrebbe essere condiviso dall’intero Occidente e da nuove potenze economiche come India e Cina. Ma senza queste premesse, “aiutiamoli a casa loro” vuol dire “lasciamoli morire di fame e di sete, continuiamo a prosciugare come sanguisughe le loro risorse e le loro braccia, puliamoci la coscienza con un po’ di elemosina”.
Da questo discorso ho volutamente tenuto fuori chi fugge dalle guerre. Loro per fortuna sono “protetti” da una Costituzione scritta da giganti che avevano previsto l’arrivo dei trend o di qualcosa di simile, trovando il modo di renderli inoffensivi rispetto a questioni così apicali.
Concludendo, è del tutto evidente che fino a quando il “mondo ricco” non deciderà di imporsi seriamente dei limiti che mettano in equilibrio l’intero sistema pianeta, i flussi migratori saranno inarrestabili e frasi come “non possiamo accoglierli tutti” lasceranno il tempo che trovano. Chi parte mettendo in conto di essere torturato, stuprato, ucciso, o di affogare in mezzo al Mediterraneo, difficilmente si farà impressionare da un burocratico “numero chiuso” imposto al di là del mare. Perché tra una morte certa e una flebile speranza di sopravvivenza si decide sempre la seconda strada, a casa nostra come a casa loro.
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