Partiti e politici

La laurea precox non dipende dagli studenti ma dall’università

28 Novembre 2015

«Il ragù che cuoce una giornata non serve a un fico». Meglio che la carne bruci tutta in un quarto d’ora. Se invitato a un’occasione pubblica, di argomento culinario, mi lanciassi in queste argomentazioni, potrebbe venirvi il dubbio che io non sappia cosa sto dicendo. Beh, avreste ragione. La stessa cosa è capitata al Ministro Poletti a proposito del suo panegirico sulla laurea precox, una sveltina accademica contro quella ottenuta con piena soddisfazione, ma con tecniche tantra. In pratica, il Ministro Poletti non ha idea da cosa dipenda un sistema universitario che forma capitale umano di qualità giusta nei tempi giusti. E soprattutto non gli è neppure fatto capolino l’idea che quelli cui si rivolgeva erano i clienti del ristorante (gli studenti), e non gli chef. Il problema dei tempi (e della qualità) della cucina non riguarda i clienti, ma il ristorante. Se quindi il Ministro ritiene che “in Italia abbiamo un problema gigantesco: è il tempo”, avrebbe dovuto sollecitare una riforma dell’università prima delle altre riforme: e tutte riforme fatte in fretta, come gli studenti di Poletti, pensando solo al 18 (2018).

Cominciamo da una considerazione. Chi ha la responsabilità di coordinare un corso di laurea sa che ogni anno, nel processo di valutazione della qualità, dobbiamo analizzare e discutere un insieme di dati, elaborati su un modello standard fornito dal Ministero (Giannini), tra i quali ce ne sono due: uno è la percentuale di studenti che esce dal corso nei tempi giusti; un altro è il voto degli studenti in ingresso. Ai corsi come il mio, di laurea magistrale, il ministero chiede di commentare la percentuale di studenti in ingresso che arrivano con un punteggio superiore a 106 nella laurea di primo livello, e quanti hanno ricevuto la lode. È segno che anche la qualità conta (anche se ovviamente il voto non corrisponde alla qualità). Uscire presto e male dall’università è una perdita di tempo. Se il nostro ministro ha davvero bisogno urgente di giovani da avviare al lavoro, forse potrebbe proporre un’uscita anticipata. Perché perdere tre anni, anziché perderne uno solo? Ne parli con il Ministro Giannini. Quello che è sicuro, è che ad oggi gli abbandoni sono considerati un tratto negativo del corso di laurea, e non dello studente. Il risultato naturale è che da un lato i docenti tendono a far progredire la carriera degli studenti, anche se hanno una preparazione largamente insufficiente; dall’altro, i corsi tendono a rendere più selettivi i controlli all’entrata. Quindi, lo studente modello di Poletti entra in un corso per un errore di valutazione (suo e dei professori) e ne esce addirittura sopravvalutato.

Ma tutte queste cose Poletti non le sa. Il problema dell’uscita tempestiva degli studenti dai corsi di laurea è un tema su cui l’università italiana sta combattendo da anni, e deve essere chiaro che è un problema dell’università, e non degli studenti. Ai tempi in cui nell’università facevo lo studente il tempo correva senza fretta, e i temi potevano essere assorbiti in un anno intero di lezioni. Quando sono andato a studiare negli Stati Uniti ho sperimentato il modello opposto. Studio costante e verifiche (esami) a frequenza ravvicinata. Se perdi un attimo il passo non puoi tirare il fiato, e ti devi produrre in un allungo per raggiungere almeno il plotone, e poi scalarlo sperano di arrivare almeno B (la media della classe), ma tipicamente eri talmente lanciato (con le tecniche di studio imparate in Italia), che arrivavi comodamente alla A (il primo quarto). L’università italiana oggi ha un modello ibrido, o forse è in mezzo al guado tra i due: l’università che abbiamo fatto noi e quella dei paesi anglosassoni (entrambe ottime). Non è detto che la cosa migliore sia rimanere nel mezzo, ma la transizione non può essere fatta da oggi a domani.

Uno dei temi centrali su cui si gioca questa transizione è l’organizzazione degli esami. È questa organizzazione, infatti, che detta i tempi di studio dei ragazzi. Da noi a Bologna la tendenza è verso un’organizzazione degli esami in tre appelli: due alla fine del periodo di insegnamento, e uno di recupero a settembre. La presenza dell’esame a settembre rende il sistema meno rigido di quello americano, ma l’impatto sui tempi di studio si è manifestato in maniera evidente. Poi c’è l’annosa questione della possibilità di rifiutare un voto o meno. In un sistema all’americana, e alla Poletti, questa possibilità dovrebbe essere esclusa. Al momento, la decisione è nel dominio del docente. La mia scelta personale non è univoca. Scelgo di esercitare una “moral suasion” che non è sempre in un senso, cercando di dare allo studente un parere e lasciandolo libero di scegliere.

Queste, caro Ministro Poletti, sono solo le basi del mestiere. Fare uscire al tempo giusto gli studenti richiede anche un lavoro di confronto costante e attivo con loro. Ogni anno a giugno dedico diverse giornate a sentire gli studenti uno per uno, per suggerimenti e critiche sull’andamento del corso, ma anche per cercare di estrarre da loro inclinazioni e ispirazioni, se non addirittura un tema di tesi, su cui farli riflettere durante l’estate. È un esercizio tra la psicologia e la maieutica faticoso (e volontario) che alla fine fa emergere l’individualità dello studente. Lo studente, e il capitale umano in generale, infatti, non è una “commodity”, e richiede lavoro individuale dello studente  insieme al corpo docente. Nessuno studente, di fronte a un suo docente o a fianco a un tutor che lo segue, dichiarerebbe mai di aspirare solo a uscire presto, non importa come, dall’esperienza universitaria, perché si sente al centro di un lavoro di costruzione di capitale umano che è il suo patrimonio individuale. Rendere istituzionale un affiancamento di questo tipo potrebbe consentire agli studenti di scegliere il giusto mix di velocità e qualità, rifuggendo dagli estremi di Poletti. E poi è essenziale che ogni corso possa contare su un manager dedicato per gli aspetti amministrativi e gestionali, e che sia presente un ufficio di “placement” efficace. Ma questi, Ministro Poletti, sono doveri e scelte dell’università, non dello studente.

Che fare, quindi? Forzare la mano arrivando al sistema americano? Possibile, ovviamente. Si potrebbe togliere l’esame a settembre, e impedire il rifiuto del voto. Si potrebbe addirittura applicare una norma di cui mi parlava una mia studentessa di Praga a proposito della Repubblica Ceca: escludere lo studente dall’università dopo che ha fallito l’esame per tre volte. Si può fare tutto, ma lo deve fare la politica, in modo che le regole valgano per tutti. Poiché infatti i nuovi “studenti Poletti” avranno voti minori di quelli delle coorti precedenti, una regola chiara e generale potrebbe distinguerli dai precedenti. Finché una norma chiara non attuerà la svolta (e spetta al Ministero dell’Università e della Ricerca), gli studenti non potranno avere scelta, e non potranno “bruciare” un bel niente. Avranno solo la scelta tra la convocazione da parte della “under 21 degli ignoranti” per cui fa il tifo il Ministro Poletti e i “clerici vagantes” del Medio Evo, che tutto sommato io preferirei ai primi.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.