Partiti e politici
Caro Pisapia, abbiamo già dato
Mentre il Pd traballa, squassato dalle solite polemiche interne che rischiano di travolgere il “suo” governo, Giuliano Pisapia si fa avanti (“scendo in campo di nuovo. Ieri a Milano, oggi in Italia”) con un’intervista al Corriere della Sera.
Dietro le consuete pudiche ritrosie tipiche della sinistra (“Mi metto al servizio di un impegno politico collettivo. Il protagonista non sono io“; “ho il mio lavoro, non ho ambizioni personali (…) più volte ho rifiutato di fare il ministro. Ho fatto un passo indietro dopo la vittoria storica di Milano”) emerge in realtà un notevole egocentrismo politico (“Enzo Bianchi mi ha detto: “Lei si butti se viene chiamato”. E mi hanno chiamato in tanti“;”A Milano i grillini sono attorno al 10%. In tanti mi hanno chiesto come sono riuscito a non farli emergere“; “A Roma mi dicevano: “Venga qui a fare il sindaco…”); dietro l’inevitabile proclama di non voler fondare l’ennesimo partito (“ce ne sono già troppi”), bensì una casa comune per unire storie e percorsi diversi (“le associazioni che lavorano sul territorio, le amministrazioni locali, il volontariato laico e cattolico“) affiora distintamente la ratio politica prevalentemente elettorale del progetto (“quello che mi interessa è recuperare i milioni di voti persi tra gli elettori di centrosinistra“; “penso che l’alleanza tra il Pd, noi, le liste civiche, gli ecologisti possa arrivare al 40%“).
Le ambizioni di Pisapia sono legittime e rispettabilissime; potrebbero essere persino affascinanti per un’elettrice di sinistra come me, se non evocassero una triste sensazione di déjà vu.
A parole, l’iniziativa è presentata come straordinariamente innovativa (“un progetto del tutto nuovo, che nasce con una grandissima ambizione: offrire altro, rivoluzionare la politica, cambiarla nel profondo”); nella pratica, però, la road map è delle più tradizionali (“Faremo iniziative in diverse città, anche con sindaci e amministratori di piccoli e grandi Comuni. L’11 marzo faremo il primo grande incontro nazionale, a Roma. Poi apriremo le Officine per il programma“). Negli intenti, gli interlocutori sono “non ceto politico, persone alla ricerca di una speranza”, ma l’intervista basta a chiarire il posizionamento del Campo Progressista rispetto a tutti gli attori dell’area politica di riferimento (“Non ho mai fatto la stampella di nessuno, e a Renzi ho sempre detto quello che pensavo“; “Rispetto Alfano, ma dai diritti civili alle politiche per i giovani siamo diversi“; “Il mio amico Nichi pensa che non sia più possibile costruire un centrosinistra con un Pd geneticamente modificato (…) io la penso diversamente“). Il progetto è descritto come corale (“riunire chi vuole fare qualcosa per la società e non trova il modo”), ma è del tutto evidente che Pisapia se ne considera il dominus.
L’aspetto più problematico sta però nelle contraddizioni insite nell’operazione politica di Pisapia.
Da un lato, l’ex sindaco di Milano rivendica con orgoglio la propria indipendenza (“Non ho mai fatto la stampella di nessuno”; “Siamo una forza autonoma; non possiamo certo entrare in una lista con il Pd”); dall’altro, però, posiziona a priori la sua creatura politica in alleanza con il Partito Democratico (“L’importante è che il Pd capisca di non essere autosufficiente. Occorre una svolta che guardi a sinistra”). Da una parte Pisapia colloca il Campo Progressista decisamente in alternativa all’attuale maggioranza di governo (“non possiamo stare con un partito di centrodestra”; “occorre (…) una forte discontinuità”); dall’altro riconferma il sostegno alla principale iniziativa politica del governo Renzi, cioè la riforma costituzionale (“una riforma che non condividevo appieno, ma portava cose positive”) e prende solo vagamente e tardivamente le distanze dal resto (“altre riforme che si sono trasformate in controriforme, ad esempio sul Jobs Act”).
Pisapia sembra insomma convinto che il Partito Democratico sia pronto a superare “una stagione in cui i democratici erano costretti ad accordi con Alfano e anche con Berlusconi” per aggregarsi al nuovo centrosinistra di cui il Campo Progressista intende essere l’embrione: una coalizione che, oltre a CP e Pd, includa liste civiche e ecologisti, lasciando fuori i centristi (o meglio, il Ncd). Nelle sue parole,
“La prospettiva è più ambiziosa: spostare il Partito Democratico a sinistra. Per necessità numerica, il Pd è stato costretto a governare con forze che non erano né di sinistra né civiche. È il momento di andare oltre”.
Ci sono però due non trascurabili aspetti che Pisapia pare non considerare: il primo è che per spostarsi a sinistra il Pd dovrebbe cambiare Segretario, dato che Renzi ha sempre rivendicato e praticato la strategia dello “sfondamento a destra” e pare intenzionato a proseguirla anche dopo la débâcle del 4 dicembre; il secondo è che il suo nuovo centrosinistra potrebbe non avere i numeri per governare da solo – un’obiezione che l’intervistatore non manca di proporgli, ricevendone una risposta sibillina: “per me sarebbe impossibile appoggiare un governo di larghe intese”.
In realtà, a questa domanda Pisapia sembra dare una risposta implicita quando afferma: “Ora siamo a un bivio: o riusciamo a fare una coalizione che dia risposte ragionevoli alla questione sociale; oppure lasciamo il Paese a Grillo e alla destra”. In quel ragionevole e in quell’appello a unirsi contro le “forze antisistema” si coglie, con non eccessiva malizia, una disponibilità a riaprire le porte ai “moderati” in caso di necessità numerica; d’altra parte, l’unica logica alternativa sarebbe che il CP lasciasse la coalizione con il Pd, come Sel fece al momento della formazione del primo governo Letta.
Comunque vada, insomma, al netto di una (improbabilissima) “conversione” del Pd e di una (altrettanto improbabile) vittoria autonoma del nuovo centrosinistra, il destino del Campo Progressista pare ragionevolmente indirizzato verso una riedizione del passato: o partecipare a una replica numericamente necessaria delle (più o meno) larghe intese che governano il Paese dal lontano 2011 (governo Monti); o provocare una quasi immediata rottura della neonata coalizione di centrosinistra, proprio come accadde nel 2013.
Per noi elettori di sinistra sarebbe davvero una beffa: su entrambi i fronti, come si suole dire, abbiamo già dato.
Dal mio punto di vista, la prospettiva più ambiziosa cui Pisapia dovrebbe puntare è esattamente opposta: riconoscere come “non sia più possibile costruire un centrosinistra con un Pd geneticamente modificato” e collaborare alla creazione di un Campo di sinistra nettamente alternativo alla proposta politica che il partito di Renzi e il suo governo hanno realizzato. Starebbe poi al Pd, dopo le prossime elezioni, decidere se mantenere l’alleanza con i “moderati” (che viene ad oggi data per scontata dallo stato maggiore del partito) o romperla per spostarsi a sinistra; a meno che, di fronte a una proposta politica chiara, lo spostamento del Pd non avvenisse anche prima, in un Congresso che pare ormai imminente.
Se non si inizia a fare un po’ di chiarezza, uscendo dalle ambiguità, non si farà altro che ingrassare elettoralmente l’astensionismo e il voto di protesta. E’ da più di un lustro che le cose vanno in questo modo; anzi, a dirla tutta, da molto prima. Ma pare che ancora dalle parti di Pisapia non ce ne si sia resi conto; forse, davvero “gli dei (della politica) accecano coloro che vogliono perdere”
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