Partiti e politici

Caro Marco Revelli, il suicidio è lasciare le piazze alla destra

6 Settembre 2019

Nel dibattito innescato dalla nascita del Conte bis c’è una questione che mi sembra lasciata inevasa anche da chi, almeno teoricamente, dovrebbe averla più a cuore ovvero la collocazione sociale di questo governo nello scontro di interessi materiali in atto nella società italiana. Un governo che secondo Luigi Di Maio dovrà essere ‘pro impresa’ e da cui, secondo Matteo Renzi, le imprese ‘non hanno nulla da temere’, un governo che riceve l’autorevole intercessione del Financial Times nei confronti di Bruxelles, mentre il suo ministro dell’Economia si guadagna persino un endorsement preventivo di Christine Lagarde.

Colpisce in particolare che a saltare a piè pari la questione sia la sinistra, che semmai tira un sospiro di sollievo. LeU sta nel governo, mentre Sinistra Italiana e Rifondazione si sono limitati ad auspicarne la formazione, come del resto la CGIL, che pur precisa, per bocca di Landini, di non avere ‘governi amici’. Il Manifesto ha invitato il proprio popolo a ‘baciare il rospo’, come già nel 1995 con Dini, colui che in nome dell’unità contro la deriva berlusconiana regalò alle future generazioni di lavoratori la pensione contributiva, cioè, soprattutto per i più giovani, la garanzia di una vecchiaia di stenti dopo una vita di precariato. Mentre Berlusconi è andato avanti per la sua strada.

In un’intervista rilasciata ieri al Fatto Quotidiano, Marco Revelli ha condensato nel modo più limpido le ragioni di questo atteggiamento. Revelli dichiara di ‘festeggiare l’uscita di Matteo Salvini dal Viminale, non una cosetta’ e giudica il nuovo governo ‘un’occasione offerta a PD e M5S’ in difficoltà, ma anche ‘un’occasione insperata per noi cittadini’, quale unica alternativa a un quadro in cui ‘avremmo avuto con molta probabilità un parlamento dominato da un’estrema destra che tra due anni e qualche mese avrebbe eletto il presidente della Repubblica che a sua volta avrebbe potuto ridisegnare la Corte Costituzionale’.  Un’occasione da cui Revelli si aspetta ‘un governo di salute costituzionale che possa mettere in sicurezza il Paese da certe forme di avventurismo. Quindi una legge elettorale con un sistema proporzionale puro, l’unico che garantisce il check and balance e l’abolizione dei decreti sicurezza, pieni di illegittimità e veleni’.

E’ una logica con cui si cancella con un colpo di spugna il conflitto sociale e i suoi protagonisti –chi licenzia e chi sciopera, chi vuole privatizzare e chi difende i servizi pubblici, chi ha la pensione d’oro e chi il misero assegno mensile riservatogli da Dini in nome della democrazia – e ci si affida ancora una volta all’evocazione della ‘Costituzione più bella del mondo’ e all’idea che priorità della sinistra sia affidarsi a una legge elettorale e a un sistema di pesi e contrappesi istituzionali per salvare il Paese con la p maiuscola, quello che riunisce sotto un unico tetto (solo metaforicamente, s’intende) Montezemolo e Cipputi. Un paese in cui chi campa di uno stipendio ha come unica prerogativa votare il meno peggio e lamentarsi sui social oppure aspettare il giorno in cui rinascerà la sinistra anche lei con la lettera iniziale maiuscola, per partenogenesi si suppone.

Ma soprattutto si tratta di un modo di ragionare fondato sulla rimozione della realtà. Anche ammesso che la ‘salute costituzionale’ sia la chiave per impedire ulteriori arretramenti, cosa di cui francamente dubito, Revelli dovrebbe essersi accorto che la Costituzione non è più in salute da quando una maggioranza bulgara – alla Camera furono 464 i voti a favore, 0 i contrari  e 11 gli astenuti – inserì al suo interno un articolo, quello sul pareggio di bilancio, in base a cui i diritti presenti nella prima parte della Carta sono diritti ‘nei limiti delle compatibilità finanziarie’. Mentre per quanto riguarda i decreti sicurezza è evidente che non verranno aboliti, perché il M5S è contrario, perché nel PD, quando Zingaretti ha provato a mettere la questione sul tavolo (per farlo saltare), è stato messo immediatamente a tacere e, infine, perché il ‘garante della Costituzione’, Sergio Mattarella, in entrambi i casi si è limitato a formulare alcune ‘osservazioni’ su aspetti che non ne intaccano la sostanza.

Nelle parole di Revelli riemerge la vecchia illusione che per cambiare il mondo si debbano conquistare o almeno controllare le istituzioni dello Stato, la metaforica ‘stanza dei bottoni’, rincorrendo la quale il PSI passò da Nenni a Craxi. Il che significa dimenticare che la sinistra le sue grandi battaglie le ha sempre vinte prima di tutto nella società, per di più rimuovendo un passaggio di fase: con l’integrazione europea, piaccia o no, quelle istituzioni hanno assunto progressivamente un ruolo ausiliario e schiacciare i bottoni di Palazzo Chigi non produce più gli effetti dei tempi di Nenni, che è anche una delle ragioni del fallimento di Di Maio e Salvini.

Una sinistra che separa la questione democratica dalla questione sociale e indica obiettivi che oggi sono più irrealistici di ieri, per di più appaltandone la realizzazione a terzi, certifica su carta bollata la propria inutilità agli occhi di quei settori sociali – in primis lavoratori e giovani senza santi in paradiso – che oggi, più di 20 anni fa, avrebbero ancora oggettivamente bisogno di  rappresentanza politica dei propri interessi. E allo stesso tempo rischia di regalare l’arena del conflitto sociale a quell’estrema destra che poco prima indicava come il pericolo numero uno. Se dovesse imbattersi in un lavoratore o in un giovane che hanno voglia di lottare – e per fortuna ce ne sono ancora – questa sinistra direbbe loro di avere pazienza e di aspettare le prossime elezioni, non prima del 2022 perché prima bisogna eleggere il Presidente della Repubblica e preservare il check and balance. La vera ‘vocazione al suicidio’, caro Revelli, a me pare questa.

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