Partiti e politici

Cani e gatti in un libro degli anni Novanta

26 Febbraio 2017

Mi sono tuffato in saggi sulla sinistra italiana. Cerco di capire che cosa è successo e cosa potrà succedere ancora alla storia della parte politica  e della componente ideale  del nostro spazio politico che mi sta più a cuore. Voglio schiarirmi le idee. Sono disorientato, e talora mi sento attraversato da idee che non condivido.  Ho preso perciò a consultare saggi accantonati nella biblioteca di casa, altri li ho prelevati nelle biblioteche pubbliche della zona (lode eterna sia al sistema Bibliotecario Nord-Est di Milano) e uno oggi l’ho preso in una piccola teca coperta, posta davanti alla fermata dalla metropolitana del mio comune dell’hinterland milanese e installata dai “compagni&amici” del Pd, ma eredi di una famosa casa del popolo della zona, di lontanissimo, settantennale, orientamento comunista.

Da questa capannetta coibentata dove si possono prelevare e depositare liberamente libri, ho preso un saggio del 1994, dalla copertina ovviamente rossa,  di un noto leader uscito sconfitto sonoramente nel suo progetto di rinnovamento (già allora!) della sinistra alla metà degli anni ’90.

Alternare saggi a letteratura amena è un consiglio che mi sento di dare ai “letterati puri” che in genere non amo, e che anzi chiamo con sfumature deprezzanti col classico termine di “bellettristi”. A differenza di loro sono attratto dalle  idee tanto quanto dai romanzi. Non so con quale frutto, ma le mie intenzioni sono diligenti, serie.

Ma ecco che appena apro il libro del politico mi trovo immerso in una atmosfera letteraria: una elegia permanente di sentimenti sfumati (è un uomo politico sconfitto che scrive) ma anche  di citazioni letterarie molto scelte: Joseph Roth, Thomas Mann, Fëdor  Dostoevskij, Italo Calvino, Michel de Montaigne ( a proposito quest’ultimo se fosse in vita oggi aprirebbe un blog in rete, e i suoi “Saggi” non sono nient’altro che una raccolta di scritti di un blogger del ‘500).

E poi mi imbatto in questa pagina chiaramente tentata dalla letteratura.

Rosada, la gatta selvaggia e salottiera, mi raggiunge acciambellandosi con sussiego e grande dignità sulla sedia a sdraio vicina alla mia. C’è qualcosa di straordinario in questa comunicazione discreta dei gatti sanno starti accanto da lontano. Questa forma di contatto, meno invadente e diretta rispetto a quella dei cani, ha qualcosa di misterioso, coinvolgente e incerto. Come il baluginare tremulo di un remoto orizzonte. Solo gli spiriti più elevati sono capaci di stare così, l’uno accanto all’altro, in un silenzio intenso ed apparentemente indifferente ma profondamente comunicativo, senza bisogno di un rapporto diretto, esteriore, di immediata e leggibile dipendenza reciproca. È l’eterna disputa tra gli amanti dei cani e quelli dei gatti.

Ora, io non ho mai posseduto in vita mia né un cane né un gatto, e non saprei nulla dire sul contenuto di questa comunicazione diaristica. So solo aggiungere, a parte quel “baluginare tremulo di un remoto orizzonte” dove credo che all’autore sia scivolata la mano in un lirismo tangeroso, che la pagina mi sembra di buona fattura. Peraltro quell’allusione all’orizzonte mi ha ricordato per un attimo quei versi di  Baudelaire  de “Les chats”

Ils prennent en songeant les nobles attitudes

Des grands sphinx allongés au fond des solitudes,

Qui semblent s’endormir dans un rêve sans fin;

Che tempo fa,  da dopolavorista delle lettere, ho tradotto qui alla bell’e meglio con

Essi prendono sognando le nobili posture

di grandi sfingi allungate su sfondi di solitudini,

sembrando assopiti in un sogno senza fine.

Questa prima parte del libro, composta di fogli di diario personali e intimi (cui segue il corpo centrale sotto forma di intervista, indi una terza parte formata da una raccolta di documenti prettamente politici), ha un po’ deluso le mie aspettative. Tanto che mi ha portato ad annotare a margine in uno scatto di impazienza “Troppe immagini letterarie e poco scavo di concetti”.  Insomma cercavo un libro di analisi politica e mi sono trovato immerso nella campagna maremmana, in descrizioni estatiche di Lisbona, in ritratti domestici come quello che precede. Quello scavo di concetti  in verità è nelle due parti che seguono, ma di esso non dirò, perché è come fare visita a Nonna Speranza, un’atmosfera politico-ideologica che a noi ammiratori di chef televisivi  risulta  del tutto incomprensibile.

Comunque avercene oggi, nell’epoca dei Vaffa e dei politici con la cultura da quiz televisivo,  leader politici che sappiano scrivere così. Ma, dopotutto, forse per questa ragione, politici fuori dal tempo e messi fuori campo astiosamente da nemici esterni e soprattutto da quelli interni (micidiale questo passo: “Era venuto da me un deputato di Gallipoli per dirmi che al congresso dovevo lasciare, perché non sapevo dirigere il partito”), leader chiusi orgogliosamente come “cavalieri antichi” in un Novecento ideologico che si apprestava al tramonto definitivo.

Il  volume che ho prelevato nel tabernacolo dei libri davanti alla metropolitana e di cui ho discorso fino ad ora  è “Il sentimento e la ragione – Un’intervista di Teresa Bartoli”,  (Rizzoli, 1994) e ne è autore  Achille Occhetto. L’uomo politico ricordato ironicamente, anche da se stesso a p. 49,  per “la gioiosa macchina da guerra”,  uscito sconfitto  in quell’anno, 1994, sonoramente da Berlusconi, il magnate televisivo che aveva colonizzato le coscienze e l’immaginario degli italiani a partire dagli anni Settanta con la televisione commerciale. Quella delle quattro “c”: calcio, cosce, canzoni e cazzate, che davano lo sfratto definitivo alla “c” di comunismo e all’ultimo segretario del Partito Comunista Italiano.  Achèl.

 

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