Partiti e politici

Burattini, burattinai e populismo

18 Febbraio 2019

L’attacco dei giorni scorsi al presidente Conte, da parte del liberale Belga Gu Verhofstadt che l’ha definito un “burattino nelle mani di Salvini e Di Maio” è quantomeno irrispettoso ma non solo verso l’Italia e la sua politica, ma verso la politica stessa ed il concetto secolare di politica. Il signor Verhofstadt forse non è a conoscenza del fatto che, in generale, sono sempre i partiti (questi sconosciuti!) che dettano le linee guida. E’ bene ricordare la definizione più basilare di partito politico: un partito politico è un’associazione tra persone accomunate da una medesima finalità politica ovvero da una comune visione su questioni fondamentali della gestione dello Stato e della società o anche solo su temi specifici e particolari. I membri del partito politico, in generale, seguono i diktat che il leader dispensa (questo va di pari passo con l’attuazione del programma elettorale, qualora il partito politico di turno, abbia vinto le elezioni). Ne consegue che qualsiasi esponente di un partito politico ha “un’entità” che lo comanda. Scomodando il sempre verde Machiavelli, elementarizzandolo, il potere può arrivare dall’alto o dal basso quindi va da sé che ci sia una regia o comunque una linea guida da seguire che legittima il potere ma che, per forza di cose, in qualche modo lo assoggetta. Nella più recente storia contemporanea italiana, sono pieni gli esempi simili: da un Berlusconi padre padrone che da quasi 30 anni è il leader indiscusso del suo partito ormai avvizzito a un Matteo Renzi, piccolo ducetto di centro sinistra del famoso “stai sereno” che ha confinato politicamente tutti quelli che non la pensavano come lui, legittimato però anch’esso dal potere conferitogli dal basso, al quale, seppur controvoglia, ha dovuto rispondere, venendo poi punito per il “non fatto” (qui si è giocato tutto e male, rimanendo miseramente sulla poltrona dopo il fallito referendum). Si può procedere così per centinaia di articoli, elencando tutti quelli che, in un modo o nell’altro, seppur capi di partito, hanno dovuto ascoltare sia dall’alto che dal basso, vincendo o perdendo. Verhofstadt, al culmine del suo senso di superiorità tipico dei paesi del nord Europa, è disarmante nella sua affermazione. Si è messo in ridicolo di fronte all’Europa intera ( seppur in un parlamento semi deserto) ignorando praticamente tutti i principi che stanno alla base della politica. E per arrivare a questo, senza scomodare Vattimo o Heidegger, non servono decenni di studi sulla legittimazione del potere in politica o sul fatto che un leader, a qualcuno, debba pur rispondere. Ne sussegue che il povero Verhofstadt parli solo per parlare, intimidito anche lui dalla “lebbra populista” che avanza (termine che piace tanto al cugino d’oltralpe Macron). Il populismo non sarebbe mai esistito se l’apparato europeo composto da tecnocrati, con la stragrande complicità dei governi europei, avesse effettivamente quanto meno cercato di venire incontro alle esigenze stratificate dell’Europa dei 28, presi singolarmente. Al buon Verhofstadt: i politici sono tutti burattini e burattinai, attori di una democrazia europea presente solo sulla carta. E’ in questo cuneo che s’instilla il populismo, mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

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