Partiti e politici

Bisogna saper perdere. I Donald Trump di casa nostra

18 Ottobre 2016

Nei giorni scorsi Donald Trump è tornato ad agitare lo spettro di un’eventuale frode elettorale a novembre affermando che l’unico modo in cui potrebbe uscire sconfitto dallo Stato chiave della Pennsylvania sarebbe “una trappola”.

Non è la prima volta che il candidato repubblicano insinua un eventuale broglio nelle elezioni presidenziali di novembre. Una convinzione a cui prima di tutto non credono i suoi compagni di partito, ma che non per questo è destinata a  spegnersi perché all’origine dela diffidenza di Trump sta proprio la sua valutazione sui membri del suo partito.

L’affermazione di Trump a molti può sembrare esagerata o fuori luogo. E’ probabile  che resterà come il segno più  evidente e profondo per davvero di questa tornata elettorale: non la corsa alla presidenza di un personaggio estremo, ma la delegittimazione dell’esito del voto da parte dello sconfitto, sarà il vero lascito di questa corsa elettorale. Il tema politico da cui dovrà ripartire la prossima volta il candidato alla Presidenza degli Stati Uniti

E’ un dato tuttavia che forse in maniera meno urlata, ma non meno strutturale, riguarda la storia italiana dall’avvento della Repubblica.

L’idea e l’immagine sono quelle di spiegare la sconfitta non tanto come destino avverso, ma soprattutto come risorsa che i “poteri forti” da sempre alleati per sconfiggere tutti coloro che periodicamente si presentano sulla scena della politica o che nella disputa elettorale sentono di rappresentare la chance di cambiamento e di riforma e si trovano spesso a misurare la distanza con chi vince il confronto politico con loro (spesso accuando i propri, o una parte dei propri si averli voluti perdenti). Raccontare la  propria sconfitta significa molto spesso raccontare la storia di chi ha tramato o truccato una partita altrimenti votata ad altro esito.

Filippo Maria Battaglia e Paolo Volterra con Bisogna saper perdere. Sconfitte, congiure e tradimenti in politica da De Gasperi a Renzi (Bollati Boringhieri) forniscono un variegato campionario di storie e di figure che si riconoscno in questa parabola.

Per esempio: Ferruccio Parri che si dimette nel novembre 1945 e che minaccia un colpo di Stato in corso (una scena quella delle dimissioni di Parri che Carlo Levi nel suo L’orologio aveva descritto con maggior sobrietà, bisogna dire); Alcide De Gasperi, che esce lentamente di scena, e che da leader indiscusso del suo partito vive il lento abbandono; Ciriaco De Mita, uno sconfitto sempre che governa per un decennio.

Oppure Bettino Craxi e  Achille Occhetto che spiegheranno le loro rispettive sconfitte rispolverando la retorica della vittima. Per non dimenticare, infine, Mario Segni, o Mario Monti e soprattutto Romano Prodi, il capo governo che cade due volte (nell’ottobre 1998 e poi nel gennaio 2008) in un clima di forti contrasti interni e che farà del suo presentarsi come vittima la carta da visita del politico puro.

La storia dell’Italia repubblicana è un lungo serial di sconfitti che rivendicano la loro condizione di vittime di poteri forti, di inganni. Il che vuol dire che la sconfitta, proprio perché ritenuta “immeritata” non determina l’uscita di scena. La sconfitta, invece,  in questa logica viene raccontata come la conseguenza di un gioco basato sull’imbroglio o sulla doppiezza. Figlia non già della competizione politica, del confrionto aperto, bensì della doppiezza che si annida soprattutto tra “gli amici”.

Davvero Donald Trump è lontano dal vecchio, vizio della politica italiana?

 

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