Partiti e politici

Bassolino e gli altri. Perché la cosiddetta “rottamazione” ha fallito

25 Novembre 2015

Purtroppo Antonio Bassolino ha ragione. Se il Partito Democratico vuole avere qualche chance di giocarsi la partita a Napoli, non ha un candidato migliore di lui. L’ex sindaco e presidente di regione è infatti un personaggio che malgrado le vicissitudini giudiziarie – da cui è uscito pulito – è ancora in grado di polarizzare grosse fette di consenso nel capoluogo campano.
Chi ha un minimo di conoscenza della realtà partenopea, sa infatti che attualmente il partito del premier rischierebbe addirittura di non arrivare al ballottaggio, schiacciato da un competitor ancora in salute come Luigi De Magistris, dal Movimento 5 Stelle in continua ascesa e da un centrodestra che in Campania raccoglie mediamente più che in altre regioni grazie alla forza di alcuni capibastone locali. Una situazione a tratti simile a quella di Roma, che se pur con effetti molto diversi rispetto a quelli che si sono prodotti nella Capitale, palesa uno sradicamento sempre più evidente del partito, ridotto a una scatola sempre più vuota con all’interno la parodia di un gruppo dirigente debole e isolato, incapace di produrre un potenziale ricambio.

La verità è che il partito gestito da “Leopolda s.p.a.” è un soggetto politico che sta subendo una veloce mutazione genetica, un’operazione fortemente voluta ben rappresentata da quello che sin da subito è stato il claim renziano per eccellenza: la “rottamazione”. Il ragionamento è apparso molto chiaro sin dai suoi albori: in tutti i ruoli visibili – che non sono necessariamente quelli apicali – le vecchie facce andavano sostituite con facce nuove, andando a pescare principalmente tra le seconde e terze file della vecchia nomenclatura. Poco importa se in molti casi si trattasse di cooptati che fino a pochi mesi prima erano al servizio dei rottamati, l’importante era l’anno di nascita e le poche appariuzioni pubbliche.

Tolti quei ruoli visibili, della “rottamazione” nessuna traccia, basti leggere i nomi e la provenienza di molti sottosegretari e presidenti di commissione dell’attuale governo, un sottobosco che sopravvive a tutte le stagioni. Contestualmente, come se le primarie fossero eterne, lo staff di “Leopolda s.p.a.” ha continuato a lavorare a una polarizzazione del consenso sul segretario / premier, rinunciando a buona parte di quello radicato della sinistra (sindacati, dipendenti, insegnanti ecc..), immolandolo sull’altare di quel voto d’opinione che storicamente il centrosinistra non riusciva ad attrarre. Come era più che prevedibile, le opposizioni interne – sia quelle poi uscite come i Civati e i Fassina, che quelle rimaste nel Pd come i Bersani e i D’Alema – sono state in breve tempo nullificate perché ancora una volta incapaci di offrire un modello alternativo, ma solo una nomenclatura facilmente oscurabile con una semplice operazione di marketing.

La conseguenza è stata una definitiva atrofizzazione del corpo del partito, ovvero di quella “creatura di Victor Frankenstein” assemblata male e poi gestita peggio dalle precedenti segreterie (perché sarebbe falso e disonesto far portare al solo Renzi la croce) con piaghe da decubito apparse in più punti, vedi “Mafia Capitale” e simili.

Ma cosa non ha funzionato nella cosiddetta “rottamazione” renziana?

Duole dirlo – e qui ricordo a chi legge che chi scrive ha 36 anni ed è un volontario del Partito Democratico e prima ancora del partito di sinistra che si è sciolto in esso – ma ciò che ha reso la “rottamazione” nulla più che un claim vincente è stato il drammatico gap tra la generazione dei cosiddetti “rottamati” e quella che avrebbe dovuto sostituirli. Sia chiaro, non è una questione di singoli, malgrado molti di coloro che attualmente occupano ruoli apicali sia nel PD che nelle istituzioni a tutti i livelli spesso si stiano rivalando figure deboli e inefficaci, ma è un gap che va oltre i confini della politica e si estende a tutti i campi della società.

Certo, c’è molta più erudizione, tra noi ci sono molti più laureati rispetto ai nostri padri e ai nostri nonni, ma rispetto a loro – forse a causa del finto benessere in cui siamo cresciuti – difettiamo in coesione sociale e capacità di reazione. Ci siamo visti sfilare sotto il naso diritti che solo vent’anni prima sarebbero stati difesi con scontri e barricate. Diritti per i quali verosimilmente in un recente passato si sarebbe sparso del sangue. E la cosa più emblematica è che quei diritti ci sono stati sfilati proprio da chi tra i nostri padri e i nostri nonni li aveva difesi con i denti fino al giorno prima, dal famigerato Pacchetto Treu in poi.

Partoriamo pochi figli perché chi non vede il suo futuro non può immaginarne uno altrui. Le nostre donne quando affrontano un colloquio di lavoro sono costantemente sottoposte a domande umilianti sulla loro vita privata, sul loro desiderio di maternità e sul potenziale desiderio di avere una famiglia. Molti di noi sono costretti a fuggire all’estero e non si tratta di una troppo ostentata “fuga di cervelli”, perché anche un cameriere o un impiegato edile vive una vita più dignitosa a Nantes rispetto che a Catanzaro.

Ma la cosa più grave è che non partoriamo più idee per lo stesso motivo per cui non partoriamo più figli, perché chi non sa più immaginare un futuro non è in grado di plasmarlo. Non siamo più allenati a pensare, le nostre menti sono inermi e facilmente manipolabili. Qui ha fallito la cosiddetta “rottamazione” e qui falliranno tutte le “rottamazioni” o presunte tali, non solo in politica. In sostanza, per quanto la parola sia più cruenta e inadatta per lanciare un hashtag, l’unica vera rottamazione è il “patricidio”, ma noi non siamo stati in grado di “uccidere” i nostri padri.

Lo scenario descritto sembra apocalittico ma in realtà non lo è, la stoiria vede continuamente generazioni “forti” e generazioni “deboli”. Chi verrà dopo di noi ci scalzerà facilmente e risalirà la china vincendo le difficoltà e ricostruendo sulle macerie che verosimilmente lasceremo. Nel frattempo il compito delle nostre poche menti illuminate dovrà essere quello di limitare gli effetti distruttivi di una mediocrità così diffusa e operare scelte giuste, magari cedendo il passo a chi c’era prima quando non si è palesemente all’altezza della situazione.

Per questo, prurtoppo, Antonio Bassolino è ad oggi l’unico candidato del Partito Democratico in grado di vincere le elezioni a Napoli. Per questo, purtroppo, sarebbe l’unico esponente di quel partito locale in grado di amministrare la città. E non avete idea di quanto chi scrive spera di essere presto smentito dai fatti.

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.