Partiti e politici
Bad news: troppi senza laurea. Good news: sono tutti al governo
Io ho fatto politica nel 77. E’ stato commovente ieri vedere qui a Bologna una mostra fotografica di quegli anni, quando Bologna era il centro del mondo e per un liceale di Firenze gli Appennini erano alti come l’Everest. E ricordo che in quegli anni, per la passione politica e per un periodo difficile di vita personale e scolastica, pensai, e provai, a lasciare gli studi. Dopo meno di un mese mi convinse mia madre, ma soprattutto mi convinse un mio compagno di partito marxista-leninista. “Vuoi fare lavoro di massa davanti alle fabbriche? Per ora la cosa migliore che puoi fare per la classe operaia è studiare, studiare fino in fondo. E la politica non è una scusa per non studiare”.
Forse ero dalla parte sbagliata. Forse fossi stato in una sede dei partiti di governo (pardon, della “non sfiducia”) qualcuno mi avrebbe dato il consiglio contrario. Ma io ero in mezzo a una piazza. E avevo in testa la fissazione dei miei che non avevano studiato. E ricordavo la frase di Totò: “E’ giovane studioso, che studia e che si deve prendere una laura”. E ho scelto di studiare, studiare fino in fondo. Oggi leggo che diverse generazioni successive alla mia il mio paese è penultimo nella unione europea per percentuale di laureati. E’ un bene o un male?
Non è scontato che sia un male. In fondo per fare un concorso a cattedra universitaria non è richiesta la laurea (o almeno tradizionalmente non è mai stato così). Il consesso dei pari può riconoscere meriti di ricerca a prescindere da un titolo. Ma quanti professori universitari senza laurea conoscete? Un ragionamento simile può essere applicato alla politica. Sarebbe un attacco al concetto di democrazia condizionare la carriera politica a un titolo di studio. Ma quanti politici conoscete senza una laurea? Troppi, troppo giovani e troppo in alto. Per tutti i paesi della UE mi piacerebbe conoscere la percentuale dei ministri senza laurea. Invece si fanno solo i confronti su quanti ministri si dimettono per essere stati accusati di plagio (e grazie a Dio su questo fronte ci difendiamo bene, seppure a fronte di una compagine più esigua di quelli che avrebbero potuto commetterlo).
Non è scontato che sia un male se la formazione universitaria è percepita nella nostra società come un bene di lusso che compete con altri beni di lusso. A questo proposito ricordo qualche anno fa mi capitò di valutare per un convegno un lavoro in cui tra gli autori figurava Elsa Fornero che sollevava il seguente quesito: le famiglie italiane preferiscono lasciare ai loro figli la casa o una formazione universitaria? Poi Elsa Fornero divenne ministro e non andai oltre il quesito, o forse non ricordo i dettagli dei risultati empirici. Ma il fatto che si ponesse questa domanda al centro di una ricerca mi colpì. Sempre tra economisti, mi colpì anche un articolo di un premio Nobel, Edmund Phelps, a proposito di quella che veniva definita “flourishing economy” (economia fiorente). Il punto era è che in un’economia fiorente non si dovrebbe neppure porre il quesito studiato da Elsa Fornero. E però il problema del ritmo ridotto di crescita era dovuto anche al fatto che nell’economia i valori della ricerca e della cultura universitaria si andavano perdendo. A questo si può obiettare che questi valori si sono sviluppati anche fuori dell’università, si pensi a Bill Gates e Steve Jobs e hanno creato sviluppo.
Ma se non è detto che sia un male, chi sono i testimonial in Italia? Chi sono i nostri Steve Jobs? Molti di loro sono in politica, anzi addirittura la governo. Si chiamano Andrea Orlando, Beatrice Lorenzin, Giuliano Poletti, Valeria Fedeli (parzialmente, perché ha un diploma universitario, ma che comunque è al Ministero dell’Università e della Ricerca). Fioccano i non laureati anche tra i “ministri ombra”, Luigi Di Maio, Matteo Salvini e Giorgia Meloni (che è anche già stata ministro della gioventù). E in larga misura si tratta di giovani, di quarantenni. A pochi di loro è stato chiesto perché. C’erano le favelas negli anni 70 o 80? C’era la miseria nera? E poi, quelli che alla università si sono iscritti, perché non l’hanno terminata? Era l’università dalle difficoltà insormontabili che ci raccontano degli anni prima del 68?
Nessuno l’ha chiesto, e nessuno ha risposto. E’ la democrazia, bellezza. La democrazia italiana è quella che ti dice che è meglio viaggiare su un buon carro, dove puoi salire con buone frequentazioni, e con i voti, piuttosto che tirarlo, il carro. E allora quando Andrea Orlando ha parlato, nel corso del confronto tra i candidati alle primarie, della necessità di più laureati nella pubblica amministrazione, è parso allo stesso tempo un vecchio (come a dire: quando facevo l’università io erano altri tempi) e un potente (come a dire che l’università non serve al cursus honorum). E invece pare giovane e pieno di sensibilità sociale. Perché non spiega l’ostacolo insormontabile a terminare una laurea in giurisprudenza? Forse perché fa parte di quella classe dirigente che ha preferito, per sé, una scorciatoia. E’ la scorciatoia della politica, che richiama da vicino le uscite del ministro Poletti sull’importanza relativa delle conoscenze personali rispetto alla formazione.
Sono passati quarant’anni dal 77. Quando la maschera di Berlinguer sfilava a Bologna insieme a quella di Andreotti con la scritta: “Oggi Sposi”. Altro che poster di Berlinguer in camera. Finiva il secolo del “rivoluzionario di professione”, per il quale non era certo richiesta la laurea, ma capire l’umore delle masse. Rimaneva solo il “politico di professione” dovrebbe interpretare il bene comune. Non è richiesta la laurea, ma magari sapere cosa significa “ottimo paretiano” non sarebbe male. Peccato che il mestiere della politica non esista più se non come negazione del concetto di mestiere. Fa politica chi non sa fare altro. E i dati sugli abbandoni scolastici sotto questo profilo ci consolano. Vediamo nel futuro un lunga ondata di “passione” politica.
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