Partiti e politici

Appunti minimi verso il congresso: il lavoro e il reddito nell’industria 4.0

6 Marzo 2017

La cosiddetta “Quarta Rivoluzione Industriale” è sempre più una realtà con cui si deve avere a che fare. La prima rivoluzione industriale, databile nel 1784, vide la nascita della macchina a vapore e quindi la prima meccanizzazione della produzione. La seconda rivoluzione industriale, databile nel 1870, diede il via alla produzione di massa grazie all’uso sempre più diffuso e massiccio dell’elettricità, dell’arrivo del motore a scoppio, del sempre maggiore utilizzo del petrolio. La terza rivoluzione industriale, databile a partire dal 1970, è quella che ha visto l’introduzione dell’elettronica, dell’informatica, della telematica, l’inizio dell’era digitale destinata ad aumentare i livelli di automazione. La quarta rivoluzione industriale invece ci porterà in dote una produzione industriale completamente automatizzata e interconnessa: se nelle precedenti rivoluzioni l’intervento dell’uomo del processo produttivo era sempre centrale, anche se progressivamente ridotto, questa nuova rivoluzione vedrà nascere un sistema di produzione che porterà praticamente a far sparire la presenza dell’uomo. Il governo ha un piano per l’industria 4.0, che però è principalmente rivolto alle industrie che saranno coinvolte in questa rivoluzione. Sono previsti anche investimenti nella scuola per formare meglio le prossime generazioni, ma c’è un problema: chi si occuperà di chi oggi è già nel mondo del lavoro e verrà tagliato progressivamente fuori, vuoi perché non adeguatamente capace di specializzarsi, vuoi perché non in possesso delle risorse e delle opportunità necessarie per specializzarsi?

Il dibattito sui posti di lavoro che verranno creati e quelli che verranno persi è aperto, così come è aperto il dibattito su come affrontare un eventuale saldo negativo di questo conteggio. Se ne parlava già al World Economic Forum del 2016, con una proiezione che allora stabiliva la perdita di 7,1 milioni di posti di lavoro e la creazione di 2 milioni di posti di lavoro. Aumenterà la richiesta di lavoratori altamente specializzati, diminuirà la richiesta di quelli generici e poco specializzati, una categoria che oggi è ancora quella più diffusa. É anche di loro che dovremmo parlare, è anche di loro che i governi che intendono facilitare l’industria 4.0 dovrebbero occuparsi, anche anche per loro che i partiti che aspirano a governare dovrebbero proporre delle idee sul come affrontare questi problemi. Ecco: dato che la politica deve guardare anche oltre al proprio naso e oltre alla prossima legislatura, e dato che sarebbe ora che il Partito Democratico ricominciasse attivamente a fare politica, oltre che usare il suo tempo in litigi interni di potere, vorrei che fra gli argomenti congressuali si affrontasse anche questi. Sulla potenziale diminuzione dei posti di lavoro e sulla necessità di avere più formazione c’è questo interessante articolo di Valigia Blu, dove si scrive che “si giunge quindi a un modello in cui all’aumento dell’automazione consegue una diminuzione di occupazione ma all’aumento di nuovi task consegue un aumento occupazionale. A sua volta l’automazione si auto-limiterebbe, come conseguenza della diminuzione dei costi del lavoro di alcune mansioni e non potrà che scoraggiare ulteriore automazione generando un rallentamento della sostituzione di posti di lavoro tendendo verso un equilibrio tra lavoro umano e lavoro delle macchine”. É il bilanciamento fra quantità e qualità del lavoro, sottinteso nella necessità di sviluppare maggiormente profili lavorativi specializzati e iperspecializzati. Come si può leggere anche in questa intervista a Serena Sileoni apparsa sull’Istituto Bruno Leoni, non è detto che l’industria 4.0 porti ad avere un saldo negativo dei posti di lavoro, anche se ricorda che previsioni a lungo termine sono un po’ improbabili da fare. Anche per questo serve studiare e preparare più soluzioni da applicare in divenire, a seconda delle pieghe che prenderà questa nuova rivoluzione.

Uno degli strumenti che molti indicano come necessario per affrontare questi problemi è il reddito di cittadinanza, mentre altri non lo ritengono idoneo. Nell’area Renzi segnalo questo pezzo di Francesco Nicodemo, in cui ci si chiede se questo reddito di cittadinanza sarà davvero utile o non possa al contrario rappresentare un problema per quei disoccupati che vorranno poi reinserirsi nel mondo del lavoro. Renzi che, a sua volta, ha parlato di lavoro di cittadinanza, una specie di piano per la creazione diretta di posti di lavoro. Al momento non se ne sa molto di più, Renzi non ha ancora spiegato nel dettaglio come intende implementare questa idea. Tommaso Ederoclite, citando le parole del sociologo Luciano Gallino scrive che “Privilegerei la creazione di occupazione diretta. Riportare in cima all’agenda politica la prassi e l’idea di piena occupazione è una questione prioritaria […] perché avere un lavoro è più importante che avere un reddito e la perdita del lavoro, in termini tanto sociali quanto personali, può infliggere danni maggiori della povertà stessa”. Dice anche Gallino: “Ho fatto riferimento altre volte all’idea che sia lo Stato a creare direttamente occupazione, in merito alla quale esistono solidi studi. Tempo fa si chiamavano schemi per un “datore di lavoro di ultima istanza”, ma oggi si preferisce chiamarli schemi di “garanzia di un posto di lavoro” (job guarantee, JG); il che non significa affatto una garanzia per quel posto di lavoro, ma per un posto di lavoro dignitoso e ragionevolmente retribuito”. Ma se Renzi parla di lavoro di cittadinanza, Orlando e Emiliano cosa propongono? Si vuole continuare a lasciare l’argomento in mano agli avversari del Movimento 5 Stelle?

C’è chi considera la soluzione del lavoro di cittadinanza come un surrogato pericoloso del lavoro nero. La domanda di fondo è: chi assumerà regolarmente qualcuno per tutti quei lavori di pubblica utilità, se potrà avere qualcuno che li compie dietro un sussidio statale? I dubbi in questa proposta sono comunque molti: che limiti dovranno avere questi lavori di cittadinanza? A chi e a quali figure saranno i rivolti? Che cifre guadagneranno quelli che svolgeranno questi lavori? Una proposta ancora talmente fumosa che ha dato modo a Grillo di attaccare Renzi accusandolo di voler creare un carrozzone democristiano che creerà soltanto debito pubblico. Insomma, questa prospettiva di New Deal del ventunesimo secolo che punti sul ritorno dell’occupazione di massa è molto suggestivo ma al momento ugualmente utopico come il reddito di cittadinanza, che se applicato alla lettera avrebbe un peso insostenibile per l’economia dello Stato. Emiliano probabilmente potrebbe essere orientato più verso l’idea del reddito di cittadinanza, avendo già iniziato in Puglia, la regione che amministra, la sperimentazione del reddito di dignità. Si tratta di un incentivo che varia dai 210 ai 600 euro, legato a un patto per l’inserimento lavorativo finalizzato a far trovare un nuovo lavoro a chi è disoccupato. Comunque, per capire esattamente cos’è il reddito di cittadinanza consiglio la lettura di questo articolo di Andrea Daniele Signorelli. Una delle chiavi di lettura è il radicale cambio di paradigma attuale, stabilito anche dal primo articolo della nostra Costituzione, che stabilisce come L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. Come scrive Signorelli, “Fornendo potenzialmente a tutti un reddito di questo tipo, però, si andrebbe incontro a una società in cui lavorare diventa un’opzione. Una società post-lavoro, insomma; difficile da accettare in una Repubblica fondata sul lavoro come la nostra, in cui il lavoro è anche una forma di affermazione e costruzione dell’identità personale.”

Interessanti sono alcuni esempi riportati da Signorelli riguardo a esperimenti compiuti in passato sul questi temi. Il primo risale al 1969, amministrazione Nixon, che voleva introdurre un reddito base universale: i risultati raccontano che le ore lavorative diminuirono del 9% principalmente perché i giovani sfruttarono quel reddito per proseguire gli studi e per formarsi meglio, mentre gli adulti ne approfittarono per prendersi maggiormente cura della propria famiglia. Il secondo riguarda un piano sviluppato dal Canada negli anni settanta, articolato su un periodo di tempo di 5 anni. In quello lasso di tempo si registrò un calo dell’1% delle ora lavorate, si vide un incremento della scolarizzazione e contestualmente una diminuzione dei ricoveri in ospedale, grazie alla maggiore possibilità di prendersi cura di se stessi e di accedere alle cure di base.

Entrambe le soluzione comunque, tanto il lavoro di cittadinanza quanto il reddito di cittadinanza, creerebbero debito pubblico. Il problema di reperire i fondi necessari è comune, e le proposte su come reperirle sono state svariate nel corso degli anni: si è passati da chi voleva finanziarle con la spending review a chi invece voleva recuperare i soldi dal taglio netto delle spese militari. Ma ultimamente ha preso molto piede un’idea: tassare i robot. Un’idea rilanciata addirittura da Bill Gates. Ma non è l’unico. Come si può leggere in questo articolo de Il Post, il candidato alle presidenziale francesi Benoît Hamon propone una tassa simile che serva parzialmente a finanziare un fondo per il reddito di cittadinanza, idea condivisa anche da quel visionario imprenditore che è Elon Musk, amministratore delegato di SpaceX e di Tesla. Ma anche qui esistono posizioni discordanti. Per restare in Italia posso citare questo articolo di Milena Gabanelli apparso sul Corriere della Sera, dove scrive che “Se un’azienda sostituisce 50 dipendenti con i robot, avrà più utili, e su quelli dovrà pagare le tasse. Va anche considerato che risparmiando sul costo del lavoro, i prodotti o i servizi saranno venduti a un prezzo più basso, con vantaggio per tutti. Quindi la domanda è: bisogna tassare la ricchezza, o la tecnologia per produrla?” Quindi potrebbe essere la tassazione sulla ricchezza prodotta a finanziare un eventuale fondo per una più robusta politica di welfare?

Ma, volendo fare il rompiscatole, ricordo che spesso in Italia ci si lamenta di come la pressione fiscale sulle aziende sia già molto alta: queste nuove tasse non rischierebbero di deprimere anche di più la nostra crescita industriale? Del resto è sotto gli occhi di tutti come anche all’interno dell’Europa ci sia una ricorsa ad abbassare la tassazione sulle aziende, con lo scopo di attrarre sempre più investimenti. Come si potrebbero conciliare con questa tendenza le eventuali tasse sui robot o quelle sulla ricchezza prodotta? La Gabanelli prosegue affermando che “Se soltanto le grandi compagnie dell’hi-tech pagassero il dovuto dove realizzano i loro profitti, si potrebbero incrementare i sussidi per quei lavoratori che sono rimasti a spasso proprio a causa delle loro tecnologie, che, come è giusto, nessuno si è mai sognato di tassare”, ma in un contesto di abbassamento progressivo e aggressivo della tassazione si rischierebbe di avere un gettito insufficiente per alimentare qualsiasi tipologia di fondo per il welfare. Ma c’è anche chi rigetta in toto l’idea di un qualsiasi fondo per un eventuale reddito universale. Ne scrivono Francesco Luccisano e Stefano Zorzi in questo articolo su Linkiesta, in cui scrivono a chiare lettere che “parliamo di reddito di cittadinanza perché non crediamo nel futuro del lavoro”. Scrivono che questa rivoluzione sta creando nuovi posti di lavoro, ma peggiori di quelli del passato: “i robot sostituiscono le mansioni di concetto, lasciando agli umani quelli più duri e a minor valore aggiunto”, facendo l’esempio di realtà come Deliveroo e Amazon, in cui sono algoritmi a compiere e guidare le scelte del consumatore, mentre è una persona in carne e ossa a fare fisicamente la consegna come fattorini. La loro idea è che “Servono politiche fiscali capaci di riequilibrare il gap di competitività tra lavoratori e macchine, tra il lavoro dell’uomo, tassato al 30/40% in Occidente, e ancor di più in Italia, soffre rispetto al lavoro delle macchine: non tassiamo i robot, come suggeriva una recente mozione al Parlamento Europeo, ma detassiamo il lavoro”.

Tutti questi argomenti troveranno spazio nel dibattito congressuale del Partito Democratico? Ci sarà spazio, in un partito che si dichiara progressista, per sviluppare visioni politiche e ideologiche che traccino un cammino da percorrere in futuro? Come scritto qualche idea è già stata annunciata, come quella di Renzi, anche se resta da capire nel concreto cosa intenda. I partiti hanno compiti importanti, fra cui quello di elaborare idee, sviluppare ideologie e visioni per il futuro, che poi verranno poste al giudizio delle persone durante le elezioni. Il Pd ha la necessità di rilanciarsi, riempirsi di nuovi contenuti, nuove idee, nuovi slanci che lo facciano ripartire dopo la batosta accusata nella sconfitta al referendum del 4 dicembre. Gettare lo sguardo verso il futuro, parlare di questi problemi che riguardano una delle paure più grandi delle persone, quella della perdita del lavoro e del ritrovarsi senza alcun reddito, è uno dei modi più efficaci per provare a ricucire con quegli strati di popolazione che sono state via via sempre più attratte dai vari populismi. Emiliano, Orlando e Renzi hanno l’obbligo di provare a ricucire questo strappo, hanno l’obbligo di ritornare a parlare a queste persone, a provare a fornire loro qualche risposta. Se è vero, come ha detto Renzi, che sarà il congresso stesso a rappresentare quella conferenza programmatica tanto chiesta dall’ala sinistra del partito, allora che si riempia di temi come questi, importanti tanto per le persone quanto per il futuro del Paese.

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