Partiti e politici
Antipolitica. Viaggio nel nostro tempo incerto
Nel 2004 José Saramago pubblica Saggio sulla lucidità, un testo che è una metafora della crisi della politica. Conviene riprenderlo in mano per interrogarsi sull’antipolitica.
Parallelamente al percorso di ricerca avviato da molti anni da Alfio Mastropaolo, da almeno un decennio Vittorio Mete, ha aperto un laboratorio di ricerca su un dato con cui, con difficoltà, facciamo i conti fino in fondo: l’antipolitica. Aveva iniziato lavorando su come l’antimafia, proposto come risorsa politica, fosse un tema che segnava un cambiamento profondo di registro.
Scriveva nel 2013 che l’antimafia si presentava come “una risorsa che serve a parare i colpi dell’antipolitica, giudicata (a ragione) l’anticamera dell’astensionismo”.
Ma col tempo quella che appariva una risorsa per riqualificare la politica, è ora diventata un terreno di delegittimazione della politica.
Com’è avvenuto questo passaggio?
Per comprenderlo, scrive Vittorio Mete occorre chiedersi e indagare quale siano i contenuti e quali le dinamiche che fondano e legittimano la crescita dell’antipolitica.
Che cos’è l’antipolitica? Non è solo e nemmeno prevalentemente quello che un tempo si sarebbe chiamata lotta alla partitocrazia, m rappresenta un passaggio ulteriore. Il problema non sono più i partiti come malcostume, Il problema, precisa Mete, è la politica. “L’antipolitica può in prima battuta essere definita come l’insieme dei sentimenti, atteggiamenti, comportamenti attraverso i quali si manifestano avversione, disprezzo, ostilità e perfino odio nei confronti dei principali simboli e attori della politica democratica”. Dunque l’antipolitica s’avvicina al fenomeno avvicina se non s’identifica col populismo. Se una dei fondamenti del populismo e del suo successo consiste nell’antipolitica, non è vero il contrario, ovvero non è automaticamente equivalente essere antipolitici e essere populisti, precisa Vittorio Mete.
Distinzione interessante e forse anche fondamentale se si vuol discutere oggi della crisi della politica e per individuare percorsi che diano nuova legittimazione alla politica senza dover pagare il ticket populista.
Dunque analizzare cause, forme e conseguenze dell’antipolitica può essere utile in due direzioni:
1) per non ritenere che la critica alla politica produca necessariamente “santificazione populista”
2) perché quella santificazione ha come effetto la richiesta di delega fiduciaria a qualcuno che si candida a rappresentare una soluzione e che implicitamente si presenta e agisce come esclusione e come nuova ricostruzione del salotto della politica.
Un malessere che non è solo italiano e che Colin Hay indicava con lucidità già nel 2007, prima della grande crisi finanziaria che ha aiutato questo processo. Ma fenomeno che ha molti luoghi generativi nell’Italia della Seconda repubblica.
Per esempio: la linea di azione (e soprattutto di creazione del vocabolario) che muove gran parte dell’azione Marco Pannella e una parte del gruppo dirigente del Partito radicale propongono a partire dai primi anni del XXI secolo nonché, paralllelamente, quella che struttura il vocabolario de «Il Fatto quotidiano»,«La Verità» o «Libero», per limitarci all’informazione su carta, come luoghi politici eculturali generativi del rapporto tra antipolitica e populismo sono conformi a questo percorso e complessivamente non sono estranei a questa trasformazione.
Questo a dimostrazione, peraltro, che in politica i linguaggi e le emozioni non nascono dalla maggioranza, ma dai processi in cui si costruisce linguaggio per delegittimare quelli che si ritengono e si costruiscono come «gli avversari».
In politica, soprattutto nella costruzione dell’«antipolitica», conta se si ha successo nella costruzione del nemico.
Quali i passaggi in cui si definisce questa trasformazione? Tra quelli che indica Vittorio Mete ne scelgo tre.
A un primo livello, osserva Mete, conta l’innalzamento del tasso di disaffezione se quel tasso -simbolicamente rappresentato, per esempio, dall’innalzamento del «non voto- è fatto proprio come identificazione politica (per cui non vitare non è un atti di protesta, ma, implicitamente diventa un segmento rilevante della propria proposta politica» volta a acquisire consenso e a rappresentare quella scelta. In questa chiave il messaggio non è rimuovere la classe politica, bensì comunicare questo:
«Fidati di me che io valorizzo ed o risposta al tuo malessere. Io sono te».
Questo è quello che usa la critica della politica come legittimazione bonapartista o cesarista della stessa. La classe politica di sostituzione che si presenta come contropolitica ha una storia, una formazione culturale, un bagaglio ideologico, un proprio pantheon di icone (politiche e culturali). Si presenta come amichevole, ma soprattutto acquista consenso vendendo l’immagine dell’avversario non come legittimo concorrente bensì nemico che si propone come l’ostacolo a una vita migliore.
Qui sta l’elemento di congiunzione tra antipolitica e populismo, ma anche più precisamente tra antipolitica e suggestioni totalitarie.
Il secondo livello è rappresentato da quali processi di autoanalisi compie chi si sente rappresentato dall’antipolitica. Nella retorica quando il processo è la disaffezione rispetto alla scelta di campo precedente non consiste nel chiedersi dove si sia sbagliati, ma nella domanda rivolta al proprio rappresentante politica che si è appoggiato fino a quel momento chiedendo: “Perché mi hai ingannato”? Il che non indica un passaggio trasformativo culturale, ma implica la ricerca ossessionato di novo affidamento fiduciario a qualcun altro che ora si presenta come «amico».
Il terzo livello è rappresentato dalla disgregazione della forma partito politico di massa così come l’abbiamo conosciuto nel ‘900. Ovvero: la lenta eclisse e, insieme, la scomparsa della sezione territoriale, di quartiere, come presidio politico. Il che pone il problema di come e in quali forma si possa dare di nuovo rappresentanza, ma soprattutto di quali siano le forme per fare in modo che la critica versi le forme della politica batta strade diverse da quelle su cui invece si è consolidata.
Ovvero:
da una parte una sottrazione di responsabilità di decisioni. Sembrerà paradossale ma da anni parallelamente all’accusa di essere onnivora la politica si è lentamente sottratta dai luoghi in cui entrano le questioni di decisioni fondate sulle competenze. E riguardano le scelte economiche, quelle finanziarie, quelle sanitarie, delegando a “esperti” la gestione e l’azione. In breve riconoscendo la propria incompetenza. Qui di nuovo ricompare il bivio tra antipolitica e populismo. Perché se lungo il primo percorso si tratta di riconoscere che occorre preparazione per definire le decisioni; per il secondo percorso quell’arretramento non è interpretato come competenza, ma come delegittimazione a decidere, e dunque a deliberare e a legiferare.
Dall’altra la necessità di costruire una statura della figura politica pubblica in gradi di confrontarsi nella continua oscillazione pubblico/privato. Il politico è una figura pubblica che ha rinunciato al privato o a cui si deve chiedere di rinunciare alla sua dimensione privata?
Ma in queto caso non è nemmeno improprio chiedersi se quella dimensione privata, anzi l’uso politico della sua dimensione privata non è stato anche un modo, condiviso e praticato dall’esponente politico, per cercare legittimazione pensando così di rispondere alla crisi iniziale della politica come professione?
Ma se è così l’antipolitica rischia di trasformare i controllori, che si presentano come garanzia di barriera agli sconfinamenti della politica, in gendarmi. Contemporaneamente chi chiede consenso in nome di questa funzione, non è così strano,nésorprendente, che si proponga come «parte sana» a fronte di una «parte malata».
Dove e quando l’abbiamo già sentita?
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