Partiti e politici
“Al potere la competenza!” Ok, quindi?
Competenza. Basta sintonizzarsi su un programma di approfondimento politico oppure leggere un editoriale di un giornale ed è molto probabile imbattersi in questa parola chiave. Competenza, appunto. Un mantra per molti: “al potere i competenti!”; “viva i competenti!”; “la politica deve tornare in mano ai competenti, questo il grande insegnamento che ci sta dando il coronavirus!”. Un’opinione e modo di leggere la realtà ineccepibile, si dirà. Peccato che declinato in questo modo, il ruolo della competenza in politica rischia di generare un dibattito privo di alcun significato ed effetto concreto. Il perché è molto semplice: parlare di competenza, in politica, così, senza legarla anche ad altri fenomeni, non ha sostanzialmente alcun senso. Anzi, si rischia persino di produrre delle degenerazioni politiche alimentate da una erronea concezione della competenza all’interno di un ambito, la politica, dove questa ha un valore solo all’interno di una cornice ideologica. Andiamo a vedere il perché attingendo a tre dibattiti molto popolari nel nostro paese. Quello sul i) governo dei tecnici, ii) i politici di professione e iii) la selezione della classe dirigente.
Il governo dei tecnici
Il nostro paese, soprattutto negli ultimi 25-30 anni, ha subito come un’attrazione fatale nei confronti di un fatidico governo dei tecnici. Tutto parte da una crescente e all’apparenza inesorabile sfiducia nei confronti degli attori politici e della politica. A tal punto che la presenza di vari primi ministri cosiddetti “tecnici” ha fatto sorgere nella mente di tanti l’idea di vivere in un paese in cui i politici “di professione” non facciano altro che sfasciare i nostri conti pubblici e reputazione internazionale, rimessi poi a posto a cadenza regolare da un governo definito come tecnico. Il problema qui però sta proprio nell’idea di un governo di fantomatici tecnici in grado di applicare tecnicamente, perchè armato di sana e oggettiva competenza, una equazione perfetta in grado di risolvere problemi di natura socio-politica. Come ben sappiamo, questa equazione perfetta o formula magica non esiste. Quindi è proprio l’espressione “governo tecnico” a essere senza significato. Ogni governo è politico. Perché politica significa scegliere tra opzioni e interessi differenti. Fossimo tutti uguali e avessimo opinioni identiche su tutto, non avremmo bisogno della politica. Ma così, come ci insegnano millenni di storia umana, non è.
Ad esempio, la tanto vituperata “legge Fornero” è frutto di una decisione tecnica o politica? L’hanno presa dei competenti o degli incompetenti? Era l’unica opzione possibile per mettere in sicurezza i conti del paese o ce n’erano anche altre? Ovviamente c’erano tante altre strade da percorrere. E questo ci conferma che anche l’ultimo “governo tecnico” avuto dal nostro paese non era nient’altro che un governo politico. Come tutti gli altri. Il fatto che fosse composto da un primo ministro e da ministri non iscritti a nessun partito non lo rende, appunto, non politico. Lo rende politico come tutti gli altri. Al massimo, e qui l’assunto della presunta “superiorità” politica di un governo composto di tecnici, un governo di (più) competenti. Quindi (forse) maggiormente in grado di accedere direttamente e in maniera circostanziata a determinate informazioni grazie alle quali operare delle decisioni politiche (si spera) foriere di benessere e sviluppo. Qui però ora sorge un dubbio: come si valuta la competenza in politica? Basta avere due lauree e un dottorato per svilupparla? È una questione di curriculum accademico o serve altro, tipo esperienza politica? E se fosse così, come si acquisisce l’esperienza politica, in politica?
I politici di professione
Il “governo dei tecnici” è dunque molto spesso messo in relazione con quello formato da politici di professione. Un’altra locuzione molto abusata nel dibattito pubblico nostrano, ma di nuovo con poco significato, se non declinata nel modo corretto. Che cos’è un politico di professione? Come si diventa un politico di professione? La risposta a queste domande è molto semplice: facendo politica. Ricoprendo cariche pubbliche. In maniera continuativa. Anche senza aver mai ricevuto alcun diploma, né laurea. Ci si candida, si viene eletti. Semplice. Inoltre, nel ricoprire alcune cariche, lo Stato garantisce una indennità con il quale un/a cittadino/a è in grado di dedicarsi completamente al suo “mestiere” di politico, senza dover intraprendere nessun altro lavoro per sopravvivere. Il proprio lavoro, inteso come mezzo per la sussistenza personale, diventa fare politica. E al netto del proprio ruolo politico, fare una cosa “di professione” significa acquisire una competenza a riguardo. Insomma, chi fa politica molto probabilmente diverrà competente in materia… politica.
Qui però ora sorgono molte altre domande: basta quindi fare politica per divenire un politico competente? Inoltre, basta fare politica per essere migliori di altri nell’arte del governo di una comunità? Soprattutto, chi sceglie di intraprendere una carriera politica oggi? Chi ha effettivamente le capacità e la visione per dirigere la propria comunità, oppure chi non ha semplicemente niente di meglio da fare perché disoccupato o annoiato da un’esistenza fondata su una vita di rendita? Politica significa anche selezionare una classe dirigente. Stabilire chi prenderà decisioni per una determinata comunità. Assegnare questa responsabilità a qualcuno che (si ipotizza) abbia delle doti superiori in questo campo rispetto a qualcun altro. Selezionare “i migliori”, appunto. Ma chi sono i migliori ai nastri di partenza oggi? E soprattutto, chi avrebbe le qualità per divenire un ottimo politico, si posiziona a questi nastri di partenza oppure sceglie di fare altro nella vita?
I “Totti e Buffon della politica”, fanno politica, in Italia?
Per rispondere a queste domande non dobbiamo fare altro che guardare all’interno di quegli attori collettivi ai quali è assegnato il compito di selezionare la classe dirigente di una città, una regione o del paese: i partiti. Per tanti oggi qualcosa di cui vergognarsi, tanto che molti partiti si nascondono dietro alla parola “movimento”, pur essendo partiti. Oppure partiti senza la parola partito nel nome. Partiti che condividono un altro tratto: l’incapacità di attrarre una mole significativa di cittadini, soprattutto rispetto al passato. Partiti che non riescono più ad attingere al meglio presente nella società, perché buona parte dei cittadini non si impegna in essi. Fa politica, sì. Magari in un comitato cittadino o facendo volontariato. Ma non nei partiti. Il cui obiettivo di creare classe dirigente si caratterizza quindi come mutilato in partenza.
Immaginiamo oggi che sportivi come Totti o Buffon avessero scelto di fare altro nella vita, non i calciatori. Avremmo comunque vinto i mondiali nel 2006? Molto probabilmente no, visto che quella nazionale non avrebbe potuto attingere a questi talenti. Lo stesso vale per la politica, nei partiti. Quanti Totti o Buffon della politica, oggi, non si impegnano nei partiti? Tanti, troppi. Risultato? Una limitata capacità da parte dei partiti di formare la miglior classe dirigente relativa alla visione del mondo che incarnano e professano. Perché politica significa appunto scontro. Idee diverse di società che combattono per imporsi l’una sull’altra. E ogni visione del mondo è ben rappresentata e veicolata all’interno di un partito. Ma partiti diversi potrebbero avere a disposizione tutti i rispettivi talenti presenti in società, altri no. Riprendendo l’esempio del calcio, è come se l’Italia nel 2006 non avesse schierato i suoi Totti, Buffon e Cannavaro, mentre la Francia tutti i suoi Zidane, Henry e Thouram. Molto probabilmente quella finale l’avremmo persa per 4-0, non vinta ai rigori. Forse non saremmo proprio arrivati in finale. Tornando alla politica: i partiti presenti oggi in Italia brulicano di innumerevoli Buffon o Totti della politica, oppure sono pieni di terze scelte in prima linea solo perché altri talenti hanno scelto di fare altro nella vita, non politica? E cosa succede quando un partito schiera i suoi Totti e Buffon, l’altro solo terze scelte?
Ok, quindi?
Chiedere che un paese sia guidato da politici competenti, così, senza comprendere la competenza all’interno di un discorso molto più ampio, non ha alcuni significato, e soprattutto non porterà da nessuna parte. Sia perché appunto “il partito dei competenti”, in politica, campo del confronto tra interessi contrapposti, è una contraddizione in termini, sia perché questi competenti non compaiono con l’utilizzo di una bacchetta magica. Ma vanno formati, nel tempo. Tra i migliori talenti politici presenti in ogni gruppo di individui che condivide una specifica visione del mondo. Dove? Nei partiti. Oggi sempre più vuoti. Soprattutto, molto poco capaci di attrarre i rispettivi Totti, Buffon e Cannavaro. E questo è valido in particolar modo in Italia. Come testimonia ad esempio la nostra scarsissima capacità di tutelare i nostri interessi a livello europeo. Forse perché gli altri oggi in campo schierano i rispettivi Zidane, Beckenbauer e Cristiano Ronaldo. Anche noi avremmo i nostri Totti e Buffon da schierare, ma questi hanno scelto di fare altro nella vita.
Vogliamo al potere i competenti? Bene, allora iniziamo a fare in modo che questi facciano politica. Nei partiti. Già da giovanissimi. Grazie a dei partiti in grado di attrarre le migliori risorse presenti in società. Hanno questa capacità, oggi, i partiti italiani?
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