Partiti e politici
A Giovanni Bianchi che è andato via
Giovanni Bianchi era un amico. È sempre difficile parlare degli amici che se ne vanno. Non tanto perché così si perde una storia, ma perché è difficile, credo, dare il senso di una storia.
Un giorno forse qualcuno racconterà di un esperimento culturale, molto elitista, in cui ognuno rappresentava se stesso e allo stesso tempo della curiosità di incontrare altri mondi molto lontani da sé. Quell’esperimento è stato molte cose e ha assunto varie vesti, ma soprattutto viveva della voglia di interrogarsi insieme di persone che non avevano alcuna intenzione di venir meno a se stesse e contemporaneamente avvertivano il limite di essere solo se stesse.
In mezzo si ritrovarono le figure scarto di molti mondi politici e culturali dell’Italia degli anni ‘80 e ’90. Tra Milano e Roma, passando per Piacenza, era un’altra Italia quella che si trovava ogni tanto a ripercorrere le strade contorte della propria formazione, a provare a condividere domande, più che risposte.
C’era Sergio Quinzio, una figura che a lungo era stata al margine e che da quella marginalità traeva forza; Edoardo Benvenuto, esponente di quel cattolicesimo intransigente genovese, figlio di Gianni Baget Bozzo e con lui in conflitto; c’era Mario Tronti, Paolo Ridella, Romana Guarnieri, Salvatore Natoli, Paolo Sorbi, Bepi Tomai, soprattutto Giuseppe Trotta, forse la figura più emblematica di un’esperienza di cattolicesimo politico, profondamente innervato di cultura comunista, e allo stesso tempo fortemente e profondamente credente, e contemporaneamente carico di un’ironia e di un’autoironia rare. E c’era Giovanni Bianchi.
Giovanni, fuori e oltre la sua esperienza e la sua quotidianità di presidente nazionale delle Acli, aveva voglia di sperimentare percorsi di ricerca spirituale, ma anche di cultura e di ricerca di senso della politica in una stagione che dichiarava apertamente la fine della politica come missione, come vissuto, come passione.
In mezzo c’erano molti altri percorsi che s’incrociavano: ciò che ruotava intorno all’esperienza della “Cattedra dei non credenti”, la ricerca di un nesso tra teologia e politica che toccava Massimo Cacciari, l’idea di rivisitazione di un’idea di pietà che nasceva dalla lettura e dalla raccolta del lascito di don Giuseppe De Luca; la “Corsia dei Servi” e lezione di padre Davide M. Turoldo, ma anche della ricerca nei percorsi con l’ebraismo, che a Milano voleva dire Paolo De Benedetti. Voleva dire muovere dai punti fermi del Concilio, ma avere anche la consapevolezza di dover andare oltre.
Un mondo che guardava l’ebraismo attraverso la lente di Scholem, ma contemporaneamente riscopriva Samuel David Luzzatto, Dante Lattes, che era affascinato dalla figura di Alfonso Pacifici e allo stesso tempo dalla passione di Enzo ed Emilio Sereni. Che aveva letto Buber, ma che sentiva che bisognava andare oltre e a cui non poteva bastare quella sintesi, così come non poteva essere una risposta, per quanto motivata, la teologia della liberazione. In breve che occorreva rifondare e battere altre strade, magari con l’aiuto anche di quelle stesse figure che avevano reso inquieta la ricerca e lo scavo culturale e spirituale nella prima metà del ‘900 ma che non poteva fermarsi lì e che la rivincita del sacro, la forza che il radicalismo religioso stava acquistando era anche, come per molte altre cose, la denuncia di un deficit culturale di chi riteneva di avere una risposta di rottura, ma sapeva che andava ricostruito per intero il vocabolario e per certi aspetti profondamente ricostruita un’intera enciclopedia. Giovanni non ha mai mollato, fino all’ultimo, non solo di “militare”, si sarebbe detto un tempo, ma, soprattutto, di pensare quando con Andrea Ferrari (siamo nel marzo di quest’anno) pubblica La fraternità dimenticata. Un libro che vale la pena pendere in mano. Indipendentemente da quanto lo si condivida. Perché ciò che conta è avere la voglia di pensare e di dialogare, e non smettere mai.
Ciao Giovanni. Che la terra ti sia lieve.
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