Partiti e politici
A cosa pensa la politica italiana mentre tenta di non perdere le Europee
La campagna elettorale per le elezioni europee volge finalmente al termine. Per capire le cose importanti, quelle che decideranno il futuro del nostro continente e del mondo, dovremo attendere la somma dei risultato del voto in tutti i paesi membri. Solo a quel punto si capirà la composizione del nuovo parlamento europeo, le maggioranze possibili, gli schemi probabili, e la ragionevole conformazione della Commissione che verrà. Solo allora si capirà dunque se avremo una commissione “spostata a destra”, senza i socialisti, e quanto a destra, e potremo misurare in prospettiva quanto saranno decisivi i singoli leader e partiti nazionali che, più o meno recentemente, sono stati euroscettici o addirittura anti-unionisti. Solo con un quadro di insieme completo potremo capire, o almeno immaginare, cosa sarà dei progetti di riarmo dell’Unione Europea, come ci porremo nei confronti della guerra in Ucraina, e in che modo la transizione verde impatterà sull’industria europea, e viceversa. Nel frattempo, da subito, in Italia potremo misurarci in maniera provinciale ma non inutile sulle prospettive sulle politica di casa nostra, e sul cambiamento di equilibri che potrebbe fare seguito ai risultati del voto di sabato 8 e domenica 9.
Le prime questioni stanno, ovviamente, nel campo di governo e maggioranza. Le ultime elezioni europee si sono svolte con regolarità dopo un anno o due dalla nascita della legislatura nazionale. Inevitabile che siano (state) vissute come un tagliando sulla salute dei governi, e dei singoli partiti, a partire da quelli che appunto hanno la responsabilità di guidare le scelte del paese. In questo caso, come in altri e forse anche un po’ di più, siamo davanto a un test esplicito sulla fiducia del paese nel presidente del Consiglio. L’ha voluto lei, del resto, mettendo al centro della scena il proprio nome, e chiedendo di misurare proprio attorno a esso il tasso di fiducia che raccoglie, dopo un anno e mezzo pieno di azione di governo. La soglia psicologica per cavarsela bene è quel 26% che sancì la vittoria di Fratelli d’Italia e della coalizione. Qualche mese fa, probabilmente, sarebbe stato più facile sognare l’exploit, e magari il 30%. Oggi, dai toni meno sicuri, si percepisce che le aspettative ritenute ragionevoli sono più basse. Il nervosismo sul tema migranti, a pochi giorni dal voto, sembra dimostrare proprio che le certezze sono meno solide, e che la concorrenza a destra fa paura a Meloni. “Tenere” è l’obiettivo, anche per evitare altre pressioni tra i fratelli coltelli della maggioranza.
Forza Italia e Lega infatti si giocano una partita tra di loro e poi un’altra, appunto, con Giorgia. Tra loro la corsa è per essere i secondi della coalizione. Qualche settimana fa sembrava crescere l’ottimismo, dentro a Forza Italia. Un ottimismo che oggi invece sembra aleggiare nelle stanze della Lega. Anche Salvini, a braccetto con un simbolo indigesto a molti dei suoi, come Vannacci, si gioca una partita nella partita: un buon risultato, sopra Forza Italia e magari in crescita in termini percentuali rispetto alle scorse politiche, darebbe un po’ di respiro alla leadership del capitano leghista, che da mesi e mesi sembra appannata pur non trovando vere alternative dentro al partito. Ai margini della contesa politica, ma guardando al cuore della comunicazione politica e della società italiana, c’è anche una certa curiosità per il risultato del Generale. Quante preferenze prenderà Vannacci? Quanto trascinerà verso l’alto il partito che lo candida? I tanti scetticismi di molti leghisti storici peseranno begativamente, in termini di consenso?
Nel complesso, naturalmente, sarà interessante misurare il peso della destra di governo nel suo complesso, e poi i rapporti delle singole componenti. Dopo un anno e mezzo di amministrazione dello stato in tempi difficili e stando a suoprattutto attenta a non sbattere su scogli di segno opposto, Giorgia attende un responso sicuramente importante.
Naturalmente, l’esigenza di pesarsi non è meno sentita dalle parti dell’opposizione. E il risultato può essere perfino più decisivo. Infatti, se continuare a comandare può essere un collante anche per le unioni meno felici, un brutto risultato quando si sta fuori dalle stanze dei bottoni può costare molto a chi guida, anche perchè c’è meno da perdere, nel breve periodo. Elly Schlein sa bene, ad esempio, che un risultato sotto il 20% sarebbe una cocente delusioni, e un punto di leva molto forte per chi vorrebbe far finire anzitempo la sua esperienza di leader anomala e diversa del Partito Democratico. Al centro della scena non ci sono solo le sue personali scelte di candidature di discontinuità, da Marco Tarquinio a Cecilia Strada, ma più in generale la gestione del partito e della linea, l’arrocco della segretaria in una cabina di comando di fedelissimi (non è una novità, solo che Elly non è una che viene dalla storia del partito), l’incerta prospettiva di un sistema di alleanze che diversi esponenti del Pd vorrebbero costruito in altro modo. Un buon risultato, per il quale traspira invero ottimismo nelle ultime settimane, magari più vicino al 25% che al 20%, farebbe sentire meno tranquilla Giorgia, e più salda in sella Elly. Ovviamente, siccome i pieni sono solo vuoti che ce l’hanno fatta, un buon risultato del Pd di Schlein sarebbe ragionevolmente accompagnato da un risultato mediocre dei 5 Stelle. Che alle Europee – va ricordato – prendono sempre la metà o poco più, in termini percentuali, di quel che valgono alle politiche. Quindi, se anche viaggiassero attorno al 15%, o poco sotto, confermando la misura delle politiche del 2022, potrebbero razionalmente ritenersi soddisfatti. Ma Conte, si sa, è ambiziosissimo, difficilmente si accontententerebbe, e probabilmente alzerebbe nuovamente il tiro della polemica. Contro il governo e soprattutto contro il suo teorico alleato Pd.
Sempre nel campo del centrosinistra, c’è curiosità per vedere se e di quanto l’Alleanza Verdi Sinistra supererà la soglia dello sbarramento del 4%. Quello per le europee è tendenzialmente un voto sbilanciato verso le città e il voto di opinioni, e non a caso ha spesso dato conforto a questo spazio politico. La candidatura simbolo di Ilaria Salis, una bandiera contro l’Europa di Orban prima di ogni altra considerazione, potrebbe dare un boost ulteriore.
C’è poi la composita microgalassia centrista. Calenda solissimo, da un lato, e Renzi, Bonino e vari cespugli dall’altro. La ragione della corsa contrapposta sta tutta nel mancato accordo tra i due galli su liste, soldi, posti. Non sulla sostanza politica. Faranno il 4% entrambi, solo uno, o nessuno dei due. La cosa certa è che insieme l’avrebbero raggiunto in scioltezza, in elezioni da sempre favorevoli per l’area moderata e liberal, mentre così si trovano appesi ai decimali, e sanno che non sarà facile, anzi.
Sullo sfondo, e in primo piano, il tema dell’affluenza. Di quanto starà sopra o sotto il 50%, e di quanto sarà distribuita verso i grandi centri urbani, rafforzando la tradizionale astinenza al sud, predominante in ogni elezioni e alle europee in particolare. Tutti tireranno i numeri percentuali dalla loro parte, per quanto possibile. I dati sull’affluenza serviranno a ricordare che contano di più, in prospettiva, i voti assoluti. A partecipare in vario modo a questa campagna elettorali ci sono molti che testimoniano, con le loro parabole, che una rondine non fa primavera, e un trionfo alle europee non basta ad aprire un ciclo, anzi più spesso ne annuncia la fine. Per questo, se fossi vicino alle leader dei due principali partiti italiani, suggerirei di non dispiacersi per il trionfo che non arriverà per nessuno, e di godersi invece un eventuale buon risultato. Sapendo che niente è scritto per più di qualche mese, di questi tempi: e quello che dicono le Europee lo è anche di meno.
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