Partiti e politici
L’antifascismo del futuro non combatte Meloni e La Russa, ma indifferenza, identitarismo e rancore
Presto non riusciremo più a spiegare perchè celebrare il 25 Aprile è importante, nè perchè è la giornata che dice chi siamo e chi dovremmo davvero essere. Il giorno della Liberazione, infatti, assomiglia sempre di più a un grande palazzo che ha fatto la storia, ma solo i più anziani ne ricordano lo splendore. A chi non l’ha visto in gioventù, a chi non ne conserva un ricordo diretto o mediato dai testimoni, mostra la faccia di una decadenza che solo gli ultimi occhi degli innamorati riescono a rimuovere. Da quel palazzo, che è stata l’architrave di una democrazia e di una nazione che tendeva al meglio, cadono cocci sulla strada, si aprono crepe nelle mura portanti, entrano ed escono indisturbati topi e scarafaggi. C’è ancora una sempre più piccola Italia che attorno a quel Palazzo, a quel giorno, si raduna festante, finge allegria, o recita triti spartiti di propaganda. Ma i più coscienti tra gli antifascisti non riescono a non chiedersi: Perchè? Che facciamo ancora in questa piazza?
Sarebbe bello dirci che non è colpa nostra, ma loro. Sarebbe più facile e allegerirebbe le coscienze di tutti. Eppure, la questione non riguarda gli eredi del Movimento Sociale, i La Russa e le Meloni, che di questa ricorrenza avrebbero fatto volentieri a meno, e che di fronte alla perdurante questione – che invero gli viene posta sempre più raramente – sul loro antifascimo cercano sempre, per rispondere, lunghe perifrasi che servono a dire quel che sappiamo tutti: e cioè che antifascisti non sono. Si dice in coro, a questo punto del discorso, che proprio questo è il problema, e lo capisco. Solo che sul punto abbiamo una risposta che già sappiamo e che si porta dietro una sconfitta che vale la pena di ammettere: l’antifascismo non è diventato patrimonio comune e imprescindibile della politica democratica italiana. Se non lo è diventato fino a ora, non lo diventerà mai più. La battaglia a sua tempo condotta da Gianfranco Fini, che pensava che per portare la destra italiana al governo fosse giusto e necessario togliere la Fiamma che arde a Predappio sulla tomba di Mussolini dal simbolo del partito, è stata irreversibilmente perduta quando Giorgia Meloni, di quasi trent’anni più giovane, rifondando un partito di destra che puntava con lungimiranza e ambizione al governo, quella fiamma la rimise in mezzo al simbolo del suo partito, e poi del suo governo. E lì è rimasta finora, e sempre troppo tardi se ne andrà, se mai succederà. Solo che la fine dell’antifascismo come valore fondante della partecipazione al potere è la conseguenza del cambiamento di una società, non la sua causa. I non antifascisti non potevano governare, qualche decennio fa, perchè non li voleva il paese. Oggi non è più così, e la responsabilità è solo marginalmente dei beneficiari. Perfino La Russa Presidente del Senato, insomma, è una conseguenza e non la causa. Questo è, anche se non ci piace.
Il tema principale della questione non sono dunque loro. La domanda da cui partiamo arriva invece dritta a noi, quel noi composito e frastagliato, che mescola cromosomi antropologici e politici molto diversi, generazioni cresciute a pane e politica e individui diventati grandi in un tempo senza partiti, o popolato da partiti senza idee e identità, e che tuttavia nel 25 Aprile dichiarano di riconoscere un valore intrinseco, perché ricorda che è dall’avversità radicale al Fascismo che è nata la Costituzione Repubblicana; che essa è sì sintesi tra anime diverse e tra loro in alcuni casi radicalmente distanti: e tuttavia, per quanto diversi, hanno potuto stare insieme in nome di una ragione più grande, l’Antifascismo, che doveva essere un valore tanto grande da far stare insieme Togliatti e De Gasperi, La Malfa e Sturzo, Tina Anselmi e Giulio Andreotti, e molti altri anche ben oltre il tempo breve e fondativo della Costituente. L’Antifascismo, quel valore così grande che dovrebbe riuscire a far stare insieme, almeno lui, non un giorno all’anno ma tutti i giorni dell’anno, Schlein e Tajani, Calenda e Conte, Renzi ed Enrico Letta: e non perdiamoci oltre nell’elenco, tanto ci siamo capiti.
A cosa serve, insomma, celebrare ancora quella Liberazione, per noi che ci crediamo? A dire che il Fascismo faceva schifo e che gli antifascisti avevano ragione, certo. Questa sarebbe la resa più agevole, perchè travestita da Resistenza. Una resa che si getta integralmente nel passato, nella memorialistica valoriale: il 25 Aprile serve a ricordare la lotta contro il Fascismo, gli uomini e le donne che rischiarono e persero la vita per un valore più grande, la libertà, cioè quel regalo del quale ancora oggi noi beneficiamo, e non sempre siamo o sembriamo così coscienti e consapevoli di quanto vale. È sicuramente vero, tutto vero. E però, raccontato così, il 25 Aprile finisce con l’essere solo una festa che guarda indietro, a un tempo difficile eppure luminoso nel quale un paese che si era inventato il Fascismo riuscì, in una sua minoranza giovane e volotiva, a coltivare il seme della consapevolezza e della ribellione a quell’abisso. La celebrazione di un passato remoto che non conserva più quasi testimoni viventi, una Festa della (prei)Storia, buona quasi solo per gli archivisti, per rinfacciare a Meloni e La Russa che noi non siamo come loro. Una cosa pigra, facile, a costo zero: il contrario della resistenza. È del resto così che sembrano celebrarla, giulivi e inconsapevoli, molti dirigenti politici del centrosinistra italiano. Vanno in piazza, intitolano strade dove governano, rinsaldano legami coi loro piccoli popoli urbani: ma di questa retorica antifascista, cosa resta? Dove arrivano queste parole, se non dove sono già sentite e praticate come proprie? Arrivano ai piccoli popoli che si definiscono di sinistra, e che sono la sommatoria di identità buone per i social network e le elezioni locali, per mettere in fila qualche centinaia di preferenze nell’Occidente dell’astensione di massa. Un’identità di sinistra che si auto-suppone cosciente, e si contrappone a una massa indistinta che non è fascista, ma è piuttosto indifferente, rancorosa, e sogna un passato dorato, nel quale eravamo tutti “italiani”: che probabilmente non è mai stato d’oro, e che di certo non tornerà. È quella la società che, in Italia e in tutto l’occidente, vota a destra, che si ritrova nelle parole d’ordine di chi non ha in antipatia il fascismo storico, ma non per questo vuole che torni. Una società tiepida, che non si indigna per niente, che non si esalta per niente.
Dieci anni fa, nel settantesimo della Liberazione, provavamo a osservare la pochezza delle nostre battaglie, rispetto alla grandezza di quelle di chi ci aveva permesso di non avere poi così tanto bisogno di combattere. Dieci anni dopo, ora che i testimoni davvero non ci sono più, e che ci è chiesto uno sforzo per essere noi quelli che lasciano un’eredità, è forse arrivato il tempo di una liberazione interiore: non sono gli eredi mai davvero pentiti del fascismo quelli da conquistare, ma un’intera società totalmente spoliticizzata, senza stimoli e senso della collettività, dell’appartenenza e di valori che non siano quelli mobiliari e immobiliari di ciascuno. È una sfida infinitamente più grande e in questo, forse, finalmente degna di essere accostata all’eroismo di chi ci liberò. È una traversata in un deserto freddo e arido. Alla fine forse c’è una terra fertile, o forse no. Servono coraggio, prospettiva, e un po’ di follia: del resto, se non ci fosse stata in mezzo un’America, sulla via delle Indie, anche Cristoforo Colombo e il suo equipaggio sarebbero morti di fame e di sete.
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