Parlamento

Tagliare posti in Parlamento non migliorerà la nostra democrazia

11 Ottobre 2019

La riforma costituzionale approvata mercoledì 8 ottobre racconta un’Italia che per migliorare i propri processi democratici opera un taglio su se stessa, mascherandolo come un intervento di risparmio. 57 milioni di euro all’anno è la cifra che vale la riduzione del numero di parlamentari, ovvero sia lo 0,007 per cento della spesa pubblica nazionale, molto meno di una qualsiasi oscillazione del rendimento dei titoli di Stato prima della loro emissione.

La rappresentanza dei cittadini, quindi, sembra interessare poco, e i conti pubblici ancora meno. Sembra contare piuttosto qualcos’altro, in grado di mettere d’accordo Partito Democratico, Liberi e Uguali, Italia Viva, Movimento 5 Stelle, Fratelli d’Italia, Popolo della Libertà e Lega, che dopo prese di posizioni più o meno contrastanti hanno deciso di votare in blocco la proposta capeggiata dai grillini.

“Semplificare” l’attività del legislativo e ridurre i numeri di un Parlamento ritenuto troppo affollato e pagato sono stati i cavalli di battaglia di una campagna di convincimento spesa troppo spesso a gettare fumo negli occhi, a trovare obiettivi dal facile consenso, come appunto il “tagliare le poltrone” senza ulteriori ragionamenti, senza declinare questo provvedimento all’interno di una più complessiva revisione istituzionale che andasse ad affrontare i veri nodi del nostro sistema, ossia il bicameralismo perfetto, i regolamenti parlamentari, la stessa legge elettorale, senza contare stipendi e benefit vari. Tutte questioni ignorate o, nella migliore delle ipotesi, affidate a futuri accordi tutti da verificare.

951 rappresentanti fra Camera e Senato, troppi, si è detto, per reggerne il peso economico totale. Eppure, per quanto il Parlamento fosse popoloso, pre-riforma l’Italia figurava comunque fra le democrazie meno rappresentative a livello europeo. Di fatto, alla Camera il rapporto era di un deputato ogni 100mila abitanti, ma con il taglio di 200 “poltrone”, ogni eletto diventa responsabile di rappresentare quasi 150mila cittadini italiani. Numeri doppi evidentemente si applicano al Senato. In questo modo, da ventiquattresimo Paese in Europa per capacità rappresentativa della Camera bassa, l’Italia post riforma si colloca ora all’ultimo posto, mentre diventa penultima nella classifica europea delle Camere alte.

Secondo l’analisi proposta, la riforma può comportare due effetti sostanziali, tanto nel funzionamento della democrazia quanto in quello delle dinamiche di partito. Da una parte, infatti, l’aumento del volume degli Italiani da rappresentare complica l’attività del parlamentare eletto, che sarà chiamato non solo a rispondere a un maggior numero di interessi e di pressioni provenienti dalla platea degli elettori, ma anche a dover ricalibrare l’autonomia politica che l’attività di rappresentanza senza vincolo di mandato gli garantisce. Minore capacità di rappresentanza, però, significa anche e soprattutto meno spazi di democrazia per tutti i cittadini, che rischiano di vedere soffocato il dialogo con candidati e rappresentanti, nonché di perdere così una porzione significativa di accesso alla partecipazione politica tramite i propri intermediari.

Senza dubbio, anche le dinamiche di partito saranno direttamente investite dalla riforma. Ridurre il numero di parlamentari vuol dire, infatti, diminuire il numero di cariche disponibili da assegnare ai membri di ciascun gruppo partitico e, se queste scarseggiano, allora diventano più preziose, rendendo l’organizzazione dei rapporti interni via via più gerarchica. Su questa traiettoria, il controllo esercitato dalla  leadership di partito andrà ad irrobustirsi e aumenterà il potere dei vertici, non senza risvolti – possiamo immaginare – sulla crescente personalizzazione che la politica sta vivendo.

Sembra contare qualcos’altro, dicevamo. In effetti, se i conti pubblici saranno soltanto solleticati da una riforma che li rimpinguerà poco e l’attività di rappresentanza rischia di essere resa più complessa, anziché semplificata, resta da ipotizzare che sarebbe stato più opportuno ridurre la retribuzione dei parlamentari mantenendo fissa la loro quota prevista dalla Costituzione.

In una fase storica di elezioni permanenti in cui la diaspora dei partiti domina lo scenario politico, la loro stabilità è ogni giorno visibilmente messa alla prova sia dall’interno che dall’esterno, senza che alcuna ricetta sia ancora riuscita a evitarne lo sfaldamento. In questo contesto, quello che conta davvero e che trova d’accordo movimenti e partiti sembra essere, allora, una riforma che riduca la dimensione della democrazia rappresentativa in cambio di un rafforzamento della struttura di partito. La motivazione economica e la semplificazione dell’iter parlamentare, intanto, si rivelano due temi importanti, ma abusati e ancora una volta strumentalizzati.

 

Alice Dominese

Membro della Redazione e del Team Public Affairs di Yezers

 

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