Parlamento
In Spagna finisce il bipartitismo: il malcontento ha voce ma governare sarà dura
Da oggi la Spagna assomiglia un po’ più all’Italia. Per la prima volta, dopo le elezioni di ieri, non si sa con certezza chi la governerà. Non era mai successo nei 40 anni trascorsi dalla fine del franchismo. Lo confermano a Gli Stati Generali diversi accademici, secondo i quali il rischio di italianizzazione è concreto. «Due nuove forze politiche sono entrate in parlamento (Podemos e Ciudadanos), e avranno un ruolo decisivo per la formazione di una coalizione di governo – spiega Máriam Martínez, docente di scienze politiche dell’Universidad Autónoma di Madrid. – Per la prima volta è possibile che il partito più votato non sia quello che governerà. Senza ombra di dubbio queste sono state elezioni storiche per il nostro paese». Già a maggio l’ex presidente socialista Felipe González aveva avvertito, non senza una certa ironia, che la Spagna avrebbe presto avuto un parlamento italiano “senza però gli italiani a gestirlo”. In effetti, finora, al potere si erano sempre alternati i due grandi partiti: popolari (PP) e socialisti (PSOE).
Il PP è rimasto la prima forza politica, con 123 seggi. Non è stata una grande sorpresa. I sondaggi l’avevano previsto, e anche il quotidiano di sinistra El País ammetteva ieri mattina che il sessantenne Mariano Rajoy è riuscito ad arrivare a queste elezioni con una situazione a suo favore. E in effetti, soprattutto nell’ultimo anno, l’economia spagnola è migliorata: il FMI stima la crescita del Pil per il 2015 al 3% contro l’1,4 del 2014 e il -1,2 del 2013. Le cifre però non sono tutte confortanti. La disoccupazione rimane al 22%, un dato di sicuro migliore di quello di due anni fa (26%), ma comunque allarmante. Il che di certo spiega, insieme ai molti casi di corruzione degli ultimi quattro anni, come mai il PP abbia perso circa un terzo dei voti rispetto al 2011, quando si aggiudicò la maggioranza assoluta.
Segue il PSOE con 90 seggi, tallonato dall’altra maggior forza di sinistra, Podemos, nata sull’onda degli Indignados, che si aggiudica 42 seggi. Che però diventano 69 se si contano anche le candidature associate di membri di altri partiti, come i comunisti di Izquierda Unida. I 40 seggi di Ciudadanos (centrodestra), invece, sono un risultato peggiore di quanto avessero previsto i sondaggi. Pare che il suo leader, il trentaseienne Albert Rivera, non sia riuscito a convincere l’elettorato, nonostante il suo iperattivismo durante la campagna elettorale.
È impossibile, quindi, prevedere chi governerà la Spagna. Anche se PP e Ciudadanos si coalizzassero non arriverebbero ai 176 seggi necessari per avere la maggioranza assoluta. Lo stesso vale sommando i seggi di PSOE, Podemos e Izquierda Unida. Una cosa è chiara: la società spagnola è divisa tanto quanto il suo nuovo parlamento. Quello di ieri è stato un voto di sfiducia verso i due grandi partiti storici, ma allo stesso tempo ha mostrato che gli spagnoli non si fidano abbastanza delle nuove forze politiche per mandarle da sole al potere.
Oggi la Spagna si sveglia con un panorama politico del tutto sconosciuto. «Stavamo vivendo una profonda crisi della rappresentanza – continua Martínez – già denunciata con forza dal movimento 15M nel 2011. E infatti il loro slogan principale era “non ci rappresentano”. Ora abbiamo guadagnato maggior rappresentatività, perché ci sono forze politiche che incarnano l’insoddisfazione della gente. Certo, ora si vedrà se ci abbiamo perso in governabilità».
Joan Bottella, docente di scienze politiche all’Autònoma di Barcellona, ha pochi dubbi sull’inizio di una nuova era. «Qui non siamo per nulla abituati a governi di coalizione, è una novità assoluta. Comunque, il fatto che debbano esserci accordi fra partiti, indipendentemente da quali siano, è già di per sé un miglioramento sostanziale in termini di processo democratico e anche di qualità della politica. È senz’altro possibile che da oggi saremo un po’ più simili all’Italia, soprattutto a quella della prima repubblica. Ma credo anche che quello che abbiamo eletto ieri sarà fondamentalmente un parlamento di transizione. Mi pare molto difficile che un governo duri quattro anni con una tale frammentazione».
Gli scenari possibili sono diversi: una coalizione di destra, di sinistra, o persino una grande coalizione. «In qualche occasione – dice Botella – si è accennato alla possibilità di una grande coalizione alla tedesca tra i due partiti storici. Entrambi la hanno subito scartato, però è chiaro che i settori conservatori della società e dell’economia preferirebbero una coalizione tra popolari e socialisti all’entrata in gioco dei nuovi partiti. Ma una mossa del genere avrebbe conseguenze catastrofiche per il partito socialista: se arrivasse ad allearsi con i popolari per frenare il cambiamento, potrebbe essere il colpo finale».
Anche il professor Alfonso Egea, dell’Autónoma de Madrid, è scettico sulla possibilità di una grande coalizione. «Sarebbe molto difficile giustificare una mossa simile di fronte agli elettori. Ritengo più probabile che entrambi i partiti dominanti, a destra e sinistra, cerchino di raggiungere i 176 seggi necessari per la maggioranza assoluta alleandosi con il minor numero possibile di altri partiti».
La situazione è spinosa insomma. Non solo regna l’incertezza sul nuovo governo ma, qualunque esso sia, dovrà occuparsi di dossier a dir poco complessi. Primo fra tutti, la crisi tra Madrid e la Catalogna che sogna l’indipendenza. Per la prossima legislatura sarà d’obbligo una riforma costituzionale, e la questione catalana peserà molto sul tipo di riforma che potrà essere varata. «Le forze politiche arrivate in parlamento – spiega Martínez – hanno posizioni molto diverse a riguardo. Ciudadanos è per il mantenimento dello status quo, ma ritiene che il problema catalano si possa risolvere riformando la Spagna. Podemos è per un referendum mentre il PSOE vuole negoziare l’opzione federale. Tutti, comunque, vogliono mettere fine all’immobilismo dell’ultimo governo».
Un obiettivo che però, alla luce dei risultati elettorali, pare difficile. Il PP conserva oltre un terzo dei seggi, e quindi anche il potere di veto sulla riforma costituzionale. «Se dovesse governare una coalizione di destra – continua Botella – è molto improbabile che si possa mettere in marcia un processo di trasformazione federale. Che d’altra parte attrarrebbe molti votanti dell’indipendentismo catalano, che sta già perdendo forza. In ogni caso nessun governo può permettersi di mantenere una situazione come quella che regna attualmente in Catalogna, dove metà della gente è decisa ad uscire dalla Spagna. Stiamo parlando della regione più potente e dinamica del paese».
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