Parlamento

Se il Pd piace più a Bondi che a Speranza…

16 Aprile 2015

Più Bondi, meno Speranza. Lo slogan per il Partito democratico dell’era Renzi è servito. La discussione sulla legge elettorale ha provocato un ulteriore cedimento verso un partito Frankstein, intenzionato a mettere insieme vari pezzi per conservare il potere sotto un brand di rinnovamento. Il PdN, Partito della Nazione, o più semplicemente il PdR, il Partito di Renzi.

Niente di nuovo rispetto a quanto già evidenziato a marzo con l’avvicinamento delle truppe di Denis Verdini verso il lido del Pd. Ma la conferma giunta nelle ultime ore non può passare sotto silenzio. Anzi. Le dimissioni di Speranza da capogruppo alla Camera, maturate dopo la chiusura di Renzi sui ritocchi all’Italicum, assumono un significato ancora più pesante, alla luce delle parole della senatrice Manuele Repetti, compagna di Sandro Bondi, fuoriuscita da Forza Italia.

Di fronte al rinnovamento della sinistra incarnata da Renzi, per le forze liberali e riformiste la sfida è di proporre un progetto politico nuovo, per oggi e per il futuro, cioè l’alleanza tra un’area oggi ancora dispersa di centro e la realtà di una sinistra per la prima volta davvero moderna che Renzi rappresenta.

La parlamentare ex forzista, al di là della ragnatela di parole, indica una rotta ben precisa: abbracciare il renzismo. Caso vuole che dopo qualche giorno Speranza, presidente dei deputati Pd di emanazione bersaniana, annunci le dimissioni, marcando una distanza dal renzismo. Un gesto nobile, che gli fa onore. Ma che soprattutto assume un peso politico notevole: il capogruppo dimissionario non ha la patente di anti-renziano, non è un Pippo Civati, accanito detrattore del presidente del Consiglio. Così ha dichiarato le sue intenzioni.

C’è un profondo dissenso. Sarò leale al mio gruppo e al mio partito ma voglio essere altrettanto leale alle mie convinzioni profonde.

Roberto Speranza, che piaccia o meno, ha sempre rappresentato la cerniera tra l’area fedelissima al leader e la minoranza interna. Il suo atto non può essere archiviato con una battuta tipo “Speranza chi?” di fassiniana (nel senso di Stefano) memoria. La sua volontà di lasciare l’incarico è traducibile in maniera molto semplice: è stato rotto anche l’ultimo argine a sinistra del Pd; lo spostamento è ormai un dato assodato e il Partito della Nazione – o comunque lo si voglia chiamare – è già nato nei fatti.

Si potrà anche covare (in maniera giustificata e comprensibile) tutto l’astio verso la minoranza Pd – Speranza compreso – che ricorda di essere “sinistra” in colpevole ritardo (una questione che merita un trattamento a parte), ma resta la constatazione ineludibile che il partito, oggi, piace più all’ex cantore del berlusconismo che a uno degli eredi della tradizione riformista, da cui è nato il Partito democratico.

Insomma, per dirla in altri termini, qualcosa significa se nel Pd c’è più Bondi e meno Speranza.

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