Parlamento
Pietro Ingrao, addio al comunista curioso che capiva la voglia di futuro
Dopo Berlinguer è stato il leader più amato dal popolo comunista. La vita di Pietro Ingrao, spentosi a 100 anni, è interamente intrecciata con quella della sinistra italiana. Leader carismatico malgrado il carattere schivo, uomo di corrente malgrado non sia mai stato sfiorato dall’idea della scissione, prototipo della sinistra più antica ma capace di suscitare passioni forti in tutte le nuove generazioni che hanno scoperto lungo questi lunghi anni la sinistra. La sua è stata una storia ricca di toni forti e di contraddizioni, emblema dell’anima movimentista della sinistra e bestia nera dei primi riformisti. Ingrao fu uno dei principali rappresentanti di quella gioventù che pur avendo fatto le ossa nelle organizzazioni fasciste (fu iscritto ai Guf e vinse i Littoriali della cultura), fin dal ’39 scoprì l’antifascismo e, un anno dopo, il comunismo.
Quando Togliatti sbarcò a Salerno e con «la svolta»portò quel singolare impasto di partito di quadri e di partito di massa che fu il Pci nel Comitato di Liberazione Nazionale, Ingrao rappresentava la giovane generazione che non portava sulle spalle i lunghi anni dell’esilio e le lotte intestine nel movimento comunista. La Resistenza lo vide in primo piano a Roma e dopo la Liberazione fu tra i primi esponenti della nuova generazione a entrare nel gruppo dirigente. Toccò a lui dirigere per quasi un decennio, dal ’47 al ’57, L’Unità, negli anni in cui Togliatti volle che il quotidiano di partito non fosse un foglio di propaganda ma un vero giornale di massa, sul modello del borghese Il Corriere della Sera. Finché visse Togliatti, la generazione di Ingrao subì il fascino del vecchio capo e si fece guidare da lui nella battaglia per sconfiggere le tendenze settarie e persino insurrezionali che sopravvissero alla fine della guerra di Liberazione. Fu una generazione che prese poco alla volta in mano le redini del partito mettendo ai margini la vecchia guardia «rivoluzionaria» senza mai sollevare un dubbio sulla linea generale e neppure sul rapporto con l’Unione Sovietica.
Alcuni di loro, e Ingrao fra questi, negli anni più vicini a noi, mostrarono poi disagio per quell’allineamento che culminò con l’appoggio ai carri armati sovietici che nel ’56 invasero Budapest e soffocarono, esaltatati dalla prima pagina de L’Unità ingraiana, la rivoluzione ungherese. Tuttavia il gruppo dirigente nascondeva profonde lacerazioni che emersero con forza alla morte di Togliatti. Prima di lui era scomparso anche Giuseppe Di Vittorio, altre grande capo comunista molto amato dalla sua gente e l’unico che nelle settimane della rivolta ungherese aveva osato manifestare il suo dissenso. Scomparso Togliatti la «giraffa» comunista si trovò forte di un impressionante insediamento sociale, con una rete di amministrazioni rosse al centro Italia ma anche al Sud, egemone nella Cgil, capace di legare a sè il meglio della cultura italiana ma priva di un capo carismatico. Il breve regno di Luigi Longo, capo militare partigiano, segretario del partito fino all’avvento di Enrico Berlinguer, vide scoppiare lo scontro fra le due anime del Pci, la cui contrapposizione ha segnato la vita del partito influenzando anche la stagione del dopo ’89.
Fu in quel perido che maturò il dualismo fra Pietro Ingrao, leader della sinistra movimentista, e Giorgio Amendola, il capo della destra che sognava, e propose ante litteram, l’unificazione con il Psi. La divisione fu molto netta e riguardava la politica delle alleanze, gli ingraiani puntavano al mondo cattolico, gli amendoliani alla sinistra riformista, di lettura della società, gli ingraiani guardavano alle novità del neocapitalismo e sollecitavano riforme radicali, gli amendoliani puntavano al compimento della rivluzione democratica e avvertivano i primi morsi del rischio dell’inflazione. Fu uno scontro fra moderati e radicali che ha preceduto di qualche decennio tutti quelli che abbiamo visto in opera in questi anni. Ingrao tentò di ingaggiare una partita ma le regole del centralismo democratico lo soffocarono e all’XI congresso del partito nel1966 fu sconfitto e i suoi uomini persero tutti i posti di comando nella direzione centrale.
Restò famosa la frase con cui nel congresso marcò il suo dissenso, frase che suscitò un grande clamore all’interno e all’esterno del Pci e che oggi farebbe sorridere: «Non sarei sincero se vi dicessi che mi avete convinto». La sconfitta lacerò anche il gruppo ingraiano al punto che pochi anni dopo, nel ‘69, un gruppo di dirigenti e intellettuali di punta, Rossana Rossanda, Luigi Pintor, Aldo Natoli e Valentino Parlato affascinati dalle lotte studentesche, e dal maoismo, dettero vita al gruppo del «Manifesto» pubblicando una rivista che costò loro la radiazione del partito a favore della quale votò anche il vecchio Ingrao. Questo episodio e l’ascesa di Enrico Berlinguer spinsero sempre più ai margini Ingrao e gli ingraiani, privi anche del loro principale contraddittore dopo la morte di Giorgio Amendola. Fu a un leader rinchiuso in se stesso e in parte prigioniero del proprio mito, alimentato dal favore che continuò a godere in vasti ambienti giovanili e intellettuali, che toccò diventare il primo comunista eletto alla Presidenza della Camera (1976-79). In quegli anni e in quelli successivi Ingrao si dedicò ai temi della riforma dello Stato, alimentò tutte le suggestioni gauchiste ma nè lui, nè l’erede di Amendola, Giorgio Napolitano, riuscirono ad intercettare quell’inedita connessione sentimentale che si sviluppò nel rapporto fra Enrico Berlinguer e il suo popolo.
Nel frattempo la generazione dei giovani ingraiani al vertice del Pci si andava assottigliando, sopravvisse solo Antonio Bassolino, mentre emergeva una nuova generazione, da D’Alema a Veltroni a Fassino, che avrebbe dominato gli ultimi anni del Pci e tutta la stagione post comunista. L’unico dei suoi vecchi seguaci che era riuscito a farsi strada distaccandosi da lui, Achille Occhetto, e fu lui che gli provocò il dolore più grande con la svolta della Bolognina dopo l’89. L’intero partito temeva la reazione di Ingrao che nei giorni cruciali della svolta era in Spagna. Toccò ad Antonio Bassolino accoglierlo a Fiumicino per spiegargli le ragioni del cambio di nome.
Ma Ingrao disse di no e diventò il simbolo della battaglia contro la svolta che poi lo condusse nelle file di Rifondazione comunista e poi in quelle del partito di Nichi Vendola. I suoi anni recenti sono stati pieni di incontri spesso per presentare libri di sue poesie che con grande pudore offriva la pubblico a partire da quel primo volumetto significativamente intitolato Volevo la luna.Non l’ha avuta, ha attraversato la storia del Novecento e del comunismo italiano senza ribellioni negli anni difficile e come campione della rottura del centralismo democratico a metà degli anni Sessanta. Fu incuriosito dal movimento delle donne, dal pacifismo, dall’ecologia, famosa la sua espressione sul «vivente non umano» con cui definì la necessita di prendersi cura della natura, simbolo di una sinistra critica e ribelle che tuttora cerca la propria apoteosi e che ora piangerà uno dei suoi uomini simbolo.
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