Parlamento

L’addio di Renzi al Pd e la politica italiana tra opportunismi e personalismi

20 Settembre 2019

Renzi lascia il Pd, ma il governo reggerà. Il sistema politico si conferma multipolare ma nella politica italiana prevalgono opportunismi e personalismi. 

 

Alla fine l’ha fatto. Matteo Renzi è uscito dal Pd. Dopo anni di sfide, scalate, primarie perse e vinte, governi, vittorie e sconfitte elettorali, polemiche esterne ed interne di ogni tipo, mesi di indiscrezioni su un nuovo partito, il senatore di Rignano ha lasciato il Partito Democratico e ha fondato Italia Viva (Partito di Renzi – PdR sarebbe stato un nome più sincero), con l’obiettivo dichiarato di far emergere una forza politica anti-sovranista di carattere agile e moderno, che si collocherà plausibilmente nel centro dello scenario politico italiano. Scissione anomala, la sua. Avvenuta subito dopo il “ribaltone” estivo che ha neutralizzato Matteo Salvini e il battesimo del governo Conte bis, in cui Renzi ha avuto un ruolo determinante nella scelta del Pd stesso di partecipare all’esecutivo, ha destato sorpresa in gran parte dell’elettorato, che aveva appena osservato un’inaspettata prova di unità del partito e ha faticato a cogliere nuovi chiari fattori di rottura tra l’ex premier e il Nazareno. L’impressione di aver assistito ad una cesura con aspetti surreali è stata di certo confermata dai toni moderati e amichevoli usati da Renzi nei confronti della sua vecchia casa, con la quale certamente dovrà convivere in maggioranza di governo. Non sono volati gli stracci, insomma. E allora perché?

 

La vera motivazione è la necessità di libertà di azione a 360 gradi di un leader dalle ambizioni personali smisurate, che non può accettare di stare in minoranza e non al comando, che vuole essere libero di muoversi nell’arena politica e di far pesare la sua forza contrattando scelte e nomine. Prima di realizzarla Renzi ha contribuito ad allontanare pericolose (per lui, soprattutto) elezioni e a far nascere il governo contrattando al meglio i posti per i suoi fedelissimi, spingendo clamorosamente per l’accordo con l’odiato M5S, avversato sdegnosamente fino a due settimane prima con annessi strali lanciati dai suoi verso chiunque osasse solo lontanamente ipotizzarlo. Spregiudicatezza alla massima potenza, insomma. Mossa del cavallo che spariglia la scacchiera della politica italiana, senza farsi troppi problemi di coerenza. Però a suo modo la scissione fa chiarezza. Era inevitabile, solo una questione di “quando”, non di “se”, e nei palazzi romani già ad agosto era un fatto noto. Non era pensabile che il Partito Democratico andasse avanti con la solita guerra interna tra renziani e non renziani. Inesorabilmente, con il Pd zingarettiano spostatosi a sinistra e impegnato ad annusarsi con il M5S, si aprono spazi al centro. E gli spazi si occupano. Sempre che non siano stretti e già troppo affollati: Siamo Europei di Carlo Calenda, Giovanni Toti, Più Europa, i resti di Forza Italia sgomitano, senza dimenticare i rumours su Urbano Cairo. E Giuseppe Conte… Chissà. Nel frattempo, difficilmente Italia Viva metterà a rischio la stabilità del governo Conte. Matteo Renzi parte da indici di gradimento minimi e ha bisogno di tempo per far fruttare la rendita di quarantuno parlamentari in dote e recuperare consenso tra gli elettori, provando a presentarsi come il vero leader anti-Salvini (il confronto televisivo in programma a ottobre è funzionale a tale strategia). Conte può effettivamente stare sereno. Fa abbastanza sorridere che il premier cada dal pero, faccia trapelare la sua costernazione e cerchi conforto al Quirinale da Mattarella, il quale peraltro pare abbia fatto capire di non essere preoccupato affatto. Fuor d’ipocrisia, chiunque nelle stanze romane sapeva chi è Renzi e cosa bolliva in pentola. Ha fatto comodo a tutti che non partecipasse direttamente alle trattative per la composizione del nuovo governo, al M5S per primo.

 

 

Lo spettro partitico italiano si aggiorna e cambia adattandosi velocemente ad ogni spostamento delle sue componenti, confermandosi ormai multipolare con scarse possibilità di tornare in tempi brevi ad un vero bipolarismo. Il probabile ritorno al metodo di voto proporzionale potrebbe rafforzare tale deriva, ma in un panorama in cui molte delle nostre forze politiche si caratterizzano come personaliste o manifestano un’identità sfuggente e mutevole a seconda delle convenienze la credibilità dell’intero sistema ne risente negativamente. L’apertura e la gestione della crisi di agosto, la nascita del governo Conte bis e la scissione renziana sono pure operazioni di palazzo e, sia che le si condividano oppure no, sono ben lontane dal presentare un collegamento non solo con il mandato popolare ottenuto a fronte di mesi o anni di dichiarazioni e posizioni politiche espresse, ma anche con una logica chiara e non pretestuosa che dovrebbe invece orientare le scelte degli attori in campo. Non stupisce che dinanzi a tali comportamenti dilaghino astensionismo e sfiducia generalizzata nei partiti, alle quali fanno da contraltare schiere di “tifosi” che sui social network vengono aizzati e trovano valvola di sfogo inneggiando fideisticamente ai loro leader, i cui messaggi sono sempre più limitati a slogan e privi di qualsiasi tentativo di ragionamento politico. Si sta giocando con il fuoco e, un giorno, forse, potremmo dovercene pentire.

 

 

 

 

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