Parlamento
La Candidatura di Cappato è davvero una buona notizia?
Dopo aver a lungo indugiato, la segreteria del Partito Democratico ha espresso il suo appoggio alla candidatura di Marco Cappato al collegio uninominale di Monza, vacante dopo la morte di Silvio Berlusconi. Lo scopo è far fronte comune con le altre forze di opposizione per strappare un seggio alla maggioranza di destra radicale del Governo Meloni. Già in precedenza infatti Marco Cappato aveva ricevuto l’endorsement di Sinistra Italiana e Azione di Carlo Calenda, due partiti agli antipodi, e di varie formazioni minori.
La candidatura di Cappato ha suscitato un grande entusiasmo. Tra coloro che si considerano progressisti, infatti, nessuno può negare una certa stima nei confronti di Marco Cappato per le battaglie che con coraggio e audacia porta avanti.
Certo, a sinistra gli viene rinfacciato l’essere un liberista in campo economico. A testimoniarlo un recente intervento sul social X di Cappato dove sottolinea l’importanza di tener conto, nel decidere la soglia del salario minimo, delle differenze regionali nel potere d’acquisto. Una dichiarazione che fa tornare in mente le gabbie salariali. È però importante ribadire che se dovessimo crocifiggere ogni politico che fa una dichiarazione discutibile sui social questo comporterebbe problemi ingenti riguardo il disboscamento.
Tuttavia è il pragmatismo la filosofia dietro la candidatura di Cappato. Una candidatura unitaria serve innanzitutto come segnale da parte dell’opposizione; significherebbe, più concretamente, strappare un seggio importante alla maggioranza di destra radicale il cui consenso, nonostante l’incapacità e le dichiarazioni, è stato solo leggermente scalfito.
Una riflessione però più ponderata fa emergere anche varie perplessità riguardanti la candidatura di Marco Cappato.
In primo luogo sulla capacità d’incidere politicamente di Marco Cappato. Se è vero che non si può ridurre la politica a mera tecnica, come pensa Carlo Calenda a suo discapito, allo stesso tempo la speranza di un mondo migliore fine a se stessa è un compito per filosofi o per frequentatori di bar bolognesi. Il bilancio della carriera politica di Marco Cappato, infatti, non è proprio invidiabile. Al netto di battaglie condivisibili, i risultati non sono stati brillanti: una (quasi) vittoria sul testamento biologico, la sentenza della corte costituzionale sul suicidio assistito e poco altro.
Anche la sua sconfitta alle primarie di Più Europa contro un nome tutt’altro che invitante come Benedetto della Vedova- al netto della faccenda “Bus di Tabacci”-è sintomatica della poca dimestichezza con la politica come comunemente intesa. Cappato, infatti, somiglia ormai a un attivista, che porta avanti battaglie giuste e condivisibili, coinvolgendo persone lontane dalla politica partitica e attirando l’attenzione dell’opinione pubblica.
Questo è il secondo e, a mio avviso, il più grande problema: la candidatura di Marco Cappato è il sintomo dell’ennesima esternalizzazione della politica da parte dei partiti nei confronti di personaggi carismatici o della società civile. Per anni i partiti sono stati visti come relitti del ‘900, strutture vetuste, che richiedevano formule nuove per conformarsi alla modernità, avvicinandosi al modello americano di partito leggere. Facendo leva sulle pulsioni umani e sui nuovi media-prima le televisioni poi i social- abbiamo trasformato la politica in una fiera della vanità dove il singolo attrae su di sé l’attenzione catalizzando consenso e contemporaneamente gettando i semi per la sua disfatta.
In questo modo la classe dirigente non è più formata da donne e uomini formati intellettualmente e politicamente nel partito, quanto una setta di Yes Men del leader, mancando completamente delle strutture a cui agganciarsi per fare opposizione interna. D’altronde il fatto che si parli di “correnti” quasi solo riguardo il PD dovrebbe spingere a una riflessione.
A testimoniare il depauperamento della classe dirigente-già prima non in gran forma- c’è l’ultima elezione per la Presidenza della Repubblica: nel corso degli anni la classe politica italiana non è riuscita a produrre un singolo nome degno di quel ruolo. Per sopperire a questa mancanza, se per ruoli di un certo livello questo ci si rivolge ai tecnici o ai pater patriae, nell’agone elettorale ciò significa servirsi di nomi della società civile.
Il caso Cappato è ancora desta ancora più perplessità. La sua candidatura è nata infatti spontaneamente grazie ai risultati raggiunti in quanto attivista, salvo dapprima racimolare poi supplicare l’endorsement dei partiti. All’interno di questi la decisione di sostenerlo è stata completamente centralizzata, scontentando quei militanti e dirigenti che al partito dedicano un notevole parte del loro tempo. Non è di certo un bel segnale per la nostra democrazia e sicuramente per i partiti, che somigliano ormai a dei taxi per la figura carismatica di turno.
Dietro quindi all’entusiasmo per la candidatura di Cappato- nonostante serva un miracolo per vincere-è necessaria però una riflessione più profonda, che riguarda i candidati, i partiti e le loro funzioni. Il problema non risiede nelle proposte di Cappato quindi, quanto nei metodi che sottolineano sempre di più una democrazia svuotata dalle strutture che, apparentemente affaticandola, la rendono viva.
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