Parlamento
+Europa senza europei
Tra Brera e il Duomo +Europa ha ottenuto oltre il 10%. Fuori da Milano centro storico e fuori da Roma centro storico, cioè nel resto di Italia, invece la lista di Emma Bonino non ha raggiunto il 3, la soglia minima per l’esistenza parlamentare.
L’intuizione di investire sul brand Europa non era affatto infondata. Benedetto Della Vedova, che per primo ha fiutato l’opportunità, è rimasto però fuori dal Parlamento. Perché? Si avanzano qui delle ipotesi.
Macron il brand l’ha valorizzato, traducendo l’intuizione in una chiamata all’azione popolare. +Europa si è invece concentrata su quel tanto che è già stata l’Europa – la pace, la prosperità, il destino comune – e andiamo avanti così, facciamocelo bastare. La retorica europeista ha garantito il posizionamento di +Europa, non ha tuttavia innescato anche il coinvolgimento in +Europa.
Macron ha identificando l’obiettivo politico di En Marche! con l’attivismo individuale del cittadino comune nel costruire la nuova Francia e la nuova Europa. Macron ai francesi non ha detto lo farò se mi voti, ha detto lo potremo fare solo se lo farai tu con me. +Europa è stata meno ambiziosa, meno attenta a cogliere la differenza tra progetto tecnocratico e progetto democratico.
Il programma di +Europa per l’Europa indica tre punti: difesa comune, governance dell’eurozona, commercio internazionale. Obiettivi di moderato riformismo, appassionanti quanto un comizio di Gentiloni.
Non c’è l’ambizione, neanche ideale, a ri-connettere gli europei all’Europa. Non c’è l’investimento sul potenziale della partecipazione popolare nel riuscire in quello che nessuna lista nazionale europeista, nessun gruppo parlamentare europeo potrà mai riuscire a fare: trasformare l’attuale apparato tecnocratico-plurinazionalista in uno uno spazio ri-conquistato alla democrazia europea.
Questo elemento a me pare dirimente ai fini del risultato deludente di +Europa – alla quale non è mancata in campagna elettorale la visibilità, patrimonio ampiamente capitalizzato della personalità autorevole, popolare e arcinota di Emma Bonino.
Il successo dei “populisti” non credo si possa spiegare con quella che per i media sembra diventata la piaga del nostro millennio, le fake news, né con l’analfabetismo funzionale di cui pare essere afflitta la popolazione educata nelle scuole italiane. Probabilmente, in quel successo, conta molto il fatto che, al suo popolo, il “populista” riconosce un ruolo attivo che lo rende parte della costruzione di un nuovo qualcosa. Un protagonismo illusorio ma centrale nel meccanismo di attivazione individuale nella conquista neobarbarica delle urne.
Sentirsi parte di qualcosa che può fare la differenza è esattamente quel bisogno che trova soddisfazione, nella tradizione radicale, nei banchetti di raccolta firme. Parte la campagna, il militante da marciapiede ritrova vita. Alle manifestazione dei 5 Stelle – il meccanismo è analogo – fanno la fila per versare l’obolo alla causa. E lo sanno che i soldi vanno a Rousseau. E lo sanno che Rousseau è la piattaforma proprietaria di una azienda privata il cui bsuiness è la vendita di dati personali. Ma non conta questo, non contano nemmeno le promesse, l’ambiguità su qualunque cosa. Non conta nemmeno Virginia Raggi. Importa la battaglia della quale ci si sente combattenti in prima linea.
Tra “coloro che sanno” comincia a serpeggiare l’idea che gli strumenti della democrazia, in mano a questo popolo incolto, possano addirittura rivelarsi pericolosi. Lo dimostra Brexit, lo conferma oggi la maggioranza assoluta degli elettori italiani.
A costoro +Europa ha offerto la rassicurazione che le cose stanno proprio così, e che l’argine al populismo plebeo potesse essere Emma, con la sua nutrita pattuglia di parlamentari piùeuropeisti armata di dati macroeconomici e dossier. E che invece con il suo 2,5% nel Parlamento dello tzunami non ci sarà.
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