Parlamento

Il ridicolo e la noia di una campagna elettorale che fortunatamente va finendo

1 Marzo 2018

Dice Minniti che la parola «emergenza è vento nelle vele dei populisti». Ad agosto diceva di aver temuto «per la tenuta democratica del paese» davanti «all’ondata di migranti». Avrà cambiato idea. Non sarebbe l’unico. Lo vanno facendo in molti, dal M5S fino a Salvini. Si cambia idea sulle regole, sugli obiettivi, su se stessi. Si cambia idea così, rincorrendo le circostanze, senza spiegare perché e senza più nessun imbarazzo. Si cambia idea, forse, perché di idee non se ne son mai avute davvero.

Succede poiché da vent’anni i partiti sono stati ridotti a protesi dei leader dietro i quali non c’è molto altro se non un intreccio di rapporti personali. Circolando poche idee, l’agenda politica la fa la cronaca e la politica è costretta a inseguire. Allora, mentre si accarezza la pancia degli elettori senza avere le idee chiare neppure sul perché lo si stia facendo, ogni cosa sembra possibile e lo diventa. Alla fine, vale tutto. Ed è così che si è assistito a una delle peggiori campagne elettorali da molto tempo a questa parte.

Esaurite le promesse d’abolizione di tasse, di leggi e d’ogni cosa pur di raccattare qualche voto in più, passate certe evitabili oscenità come l’aver trasformato anche le tragedie di Pioltello e Macerata in argomento di propaganda, attraversata la noia del moralismo che è in ogni parola sia stata scritta o pronunciata in questi mesi, superato persino il ridicolo del rinfacciarsi chi ha più ladri in lista, ecco che questa campagna elettorale s’è infine avviata verso l’abisso che s’è poi divorato ogni cosa: ecco, insomma, l’allarme sicurezza e l’allarme fascismo; nella sostanza, quasi un derby che divide esattamente a metà l’elettorato e lo coinvolge tutto.

Fascismo e sicurezza, però, son cose molto serie e si dovrebbe discuterne con altrettanta serietà; tuttavia, siamo in campagna elettorale e su questo s’è deciso di mobilitare la massa di militanti, forse sfiancata anch’essa dalla noia del nulla, e s’è provato a riportare a casa affini e disillusi, gettando sul piatto senza troppo imbarazzo il ricatto politico del voto utile ché, altrimenti, eccoti lì il baratro ed è pure colpa tua. Ma, soprattutto, in nome della ragionevolezza e della necessaria responsabilità – ipocrisie da seconda repubblica che ricordano l’eterno paternalismo democristiano, fattosi soltanto un po’ più spiccio e muscolare, come se Pangloss avesse preso steroidi – in nome di tutto ciò, si diceva, s’è potuto evitare di discutere di diritti, doveri, povertà, di violenza sulle donne, del lavoro che manca e che, quando c’è, spesso manca di dignità. S’è insomma potuto assolversi tutti dalle proprie responsabilità.

Accanto all’osceno però c’è stato anche il ridicolo. E di fronte al ridicolo fortunatamente si ride. C’è del ridicolo, ad esempio, in Luigi Di Maio che se ne vola a Londra per rassicurare la grande finanza internazionale e parlare di alleanze di governo [un tempo dalle parti di Grillo si sarebbe saltati sulla sedia per molto meno; ma adesso no, adesso, anzi, si spiega ordinatamente che il movimento cresce, matura cambia pelle: e, insomma, sembra arrivato anche per il M5s – sempre più lugubre da quando s’è sfilato Grillo – il momento di indossare la grisaglia]; c’è del ridicolo nella candidatura, col sostegno del Pd, di Pierferdinando Casini a Bologna [ma poi, in fondo, non ci si può nemmeno stupire: il Pd è oramai un partito intimamente e programmaticamente post democristiano; lo è nell’agire e lo è nella classe dirigente: non c’è più nessuno o quasi che provenga da sinistra, salvo Fassino, ed è tutto dire; ci si potrà stupire, semmai, se il 5 marzo si scoprirà che i bolognesi lo avranno eletto, l’ex delfino di Arnaldo Forlani; comunque sia, un giorno si dovrà studiare il capolavoro politico di chi ha portato molti degli elettori del Pci a morire convintamente democristiani]; c’è del ridicolo nei radicali che, ancora una volta, hanno elemosinato un posto in prima fila [e che delusione vedere che sono proprio i radicali a correre in aiuto del potere nel momento della crisi del potere! La Bonino che in coppia con Tabacci corre con un Pd che appoggia Casini e non candida Luigi Manconi è l’apoteosi della partitocrazia: la Bonino è oramai la nemesi di se stessa, come nemmeno in un fumetto della Marvel]; c’è del ridicolo in Leu che pare un campionario di reduci che, a vederli tutti lì – ancora lì, tutti insieme dopo averle sbagliate tutte ma proprio tutte – fanno rabbia o un po’ di tenerezza, dipende dai punti di vista [e, comunque sia, danno sempre la sensazione di non avere la minima idea di cosa fare]; c’è del ridicolo nella Meloni che ha sempre quell’espressione di sbigottito imbarazzo che hanno quelli che pensano di avere avuto un’ideona – come litigare col direttore del Museo egizio di Torino – e ai quali però puntualmente qualcuno, di solito Salvini, ruba la scena [così, dopo non averne azzeccata una in questa campagna elettorale, la Meloni è dovuta andare fino a Budapest da Orban, per superare Salvini a destra; ma son scelte senza ritorno poiché a tali scelte si rimane inchiodati per sempre]; e sì, ci sarebbe anche Salvini [ma Salvini non fa nemmeno più ridere].

Tutto questo sta per finire poiché domenica si voterà. Tuttavia, resta lo sconcerto di uno spettacolo che continua a nutrire rabbia, disillusione, stanchezza. Questa classe politica – ciò che resta della vecchia ma soprattutto la nuova – dà sempre più la sensazione d’esser confusa più degli elettori, di averne paura, di non essere all’altezza, d’esser superata dai fatti e dalle circostanze e dunque di trovarsi nella necessità di inseguire la cronaca per dare un senso alla propria stessa esistenza poiché, rappresentando il nulla politico e non avendo una idea di futuro, quel senso è possibile trovarlo soltanto nella creazione di un nemico; e allora si rilancia, si alzano i toni, si fa la faccia feroce, ma, alla fine, tutti sembrano ignorare persino il peso delle parole che vengono spese e le loro conseguenze, e allora si svelano per ciò che sono: incapaci di coraggio, insipienti come se il futuro dipendesse soltanto dal rimbalzo sporco d’un pallone e non da ciò che si pensa e da ciò che si farà.

E allora c’è da temere che il 5 marzo, chiunque esca vincitore dalle urne, si dovrà rimpiangere persino questi ultimi giorni di campagna elettorale, poiché oggi le promesse sono ancora soltanto promesse, mentre domani chi vince – chiunque vinca – potrebbe mantenerle.

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