Parlamento

Dieci anni di Pd: più che liquido, partito evaporato

14 Ottobre 2017

Questo testo è tratto dal libro «Hanno ammazzato Montesquieu!», Castelvecchi editore, che scrissi nel 2013 e che uscì in libreria in quello stesso anno.

Autunno 2012. Nel pieno di una crisi economica che si è divorata la borghesia figurarsi gli operai, i metalmeccanici tornano in piazza, occupano le fabbriche, salgono sulle ciminiere. Si rivedono addirittura i minatori. Di ciò nel Partito democratico quasi non si parla: c’è da organizzare le primarie e discutere di alleanze, vale a dire tenere in piedi le strutture che servono a gestire il potere, dentro e fuori il partito. Per occuparsi d’altro c’è poco spazio. […] Nessuna sorpresa, però. La storia del Pd, in fondo, era iniziata nello stesso modo.

Era il 2007, erano i mesi nei quali Ds e Margherita si avviavano a confluire in un nuovo partito. Ci sarebbero stati da scegliere gli ingredienti dell’amalgama, si sarebbe dovuto dare inizio alla discussione su ciò che il futuro Partito democratico avrebbe raccontato ai propri elettori a proposito di economia, giustizia, diritti. Eppure, «prima facciamo il partito, poi verrà il resto» era la consueta risposta che veniva rifilata al cronista che invece di domandare di alleanze e correnti si avventurava su strade molto meno battute per capire quali ingredienti sarebbero stati scelti. Ed era come dire: prima si realizzano le strutture che servono a gestire il potere dentro il partito, poi si vedrà come utilizzare quel potere. Anni dopo siamo ancora lì, a osservare un tentativo maldestro di manutenzione di un potere sempre più fine a se stesso e circoscritto a un gruppo di dirigenti, sempre gli stessi e incapaci di esprimersi su temi decisivi per la società. Le incertezze – ma è un eufemismo – sui diritti civili, terreno d’elezione per la sinistra, ne sono uno degli esempi più evidenti e dolorosi. Insomma, avrebbe dovuto essere un partito liquido, è stato sin dall’inizio addirittura impalpabile.

Una simile forza politica non poteva essere in grado di opporsi alla rivoluzione imposta da Silvio Berlusconi il quale si era sin dall’inizio posto in rapporto diretto con il Paese, saltando ogni mediazione, cancellando ogni corpo intermedio tra sé e il popolo, aprendo così le porte a quella presidenzializzazione che ha finito per travolgere il ruolo del Parlamento. Il fatto, però, è che in quel progetto si è ben presto accomodato anche il centrosinistra. Con la seconda Repubblica e l’avvento di Berlusconi, accanto alla Costituzione vigente che stabilisce che l’Italia è una democrazia parlamentare, cresce un sistema di regole che trova altrove – nel carisma di un leader, soprattutto – la propria legittimazione. L’uomo della tv e della finzione, insomma, impone al Paese un assetto politico-istituzionale – una democrazia parlamentare presidenzializzata – che è a sua volta una parziale finzione. Il centrosinistra alza il sopracciglio ma, alla fine non protesta nemmeno più. E, anzi, assume questa prospettiva come l’unica entro la quale costruire un ragionamento politico.

Quando, anni dopo nascerà il Pd, il centrosinistra sarà ormai afono; così, il nuovo partito, imparata la lezione del Cavaliere, si fa anch’esso di plastica. Quando ci fu la discesa in campo di Berlusconi nessuno lo prese sul serio, addirittura fu deriso, si gridò allo scandalo per quella calza infilata sulla telecamera. Pochi mesi dopo già tutti facevano lo stesso. E si consumavano in inutili show televisivi, parlandosi addosso senza più molto da dire come attori di un unico, grande spettacolo. Qualche anno dopo, la vittoria di Silvio Berlusconi sarà assoluta. Non sarà una vittoria da misurare sul numero di voti rimediati alle elezioni. Sarà una vittoria culturale, e per questo definitiva.

Così, nella storia del centrosinistra post-comunista, il Pd appare soltanto come una ulteriore tappa di una infinita traversata nel deserto che raggiunge uno dei suoi momenti più significativi con quella sorta di presidenzializzazione del partito operata dal suo primo segretario, Walter Veltroni. Che altro sarebbe il partito liquido, ossia il partito senza correnti e senza tessere, se non una traduzione sul terreno della politica organizzata di quel processo che aveva investito da tempo le istituzioni? Il ricorso a una convention e alla acclamazione invece che a un vero congresso con vere votazioni, l’assenza di forti corpi intermedi in grado di mediare il rapporto tra il segretario e la base, la trasformazione della stessa base in un pubblico al quale viene consegnato lo strumento delle primarie e poco altro, erano il segno della direzione intrapresa. Ma, soprattutto, a questo punto, complice la legge elettorale, il leader poteva scegliere i futuri parlamentari i quali poi, mancando una seria struttura di partito, avrebbero risposto soltanto a quello stesso segretario. Come con Berlusconi nel Pdl, anche sull’altro fronte stava emergendo la possibilità di una figura carismatica in grado di poter contare in Parlamento su una nutrita pattuglia di fedelissimi, mettendo ulteriormente in crisi il ruolo del Parlamento.

[…] Si afferma infine anche a sinistra, e definitivamente, la prevalenza della immagine sulle idee, e del marketing sulla propaganda, dell’io sul noi, dell’individuo sulla politica. […] Ed ecco che, se il partito non è più fatto di idee e se i punti di riferimento disintegrati anni prima non sono mai stati ricostruiti, se infine a prevalere sulle idee è l’immagine, allora diventa inevitabile che la tattica prenda il sopravvento sulla strategia e in mancanza di punti di riferimento ideali si viva alla giornata. Così, anche a sinistra si finisce per rincorrere sempre di più l’onda emotiva provocata dai fatti di cronaca, si ascolta la pancia del Paese, la si blandisce, la si rassicura e la si insegue, senza più essere capaci di proporre un progetto ideale.

E, però, quando un partito non è più capace di proporre un progetto e delle idee ecco che a contare davvero sono soprattutto le persone, i rapporti personali, il legame col leader. Nascono le correnti anche nel Pd. Ma è difficile cogliere le differenze ideologiche tra l’una e l’altra. Ciascuna, fa capo a un leader, non a una idea della politica. E quel partito oramai assomiglia pericolosamente ad un fascio di camarille.

Camarille: è una parola utilizzata da Enrico Berlinguer nella celeberrima intervista sulla questione morale pubblicata nel luglio 1981. «I partiti non fanno più politica», osservava il segretario del Partito Comunista Italiano il quale rivendicava con forza la diversità del Pci e spiegava: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”». «I partiti – diceva ancora Berlinguer – hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. […] La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati».

Berlinguer stava attaccando la Democrazia cristiana, il Partito socialista, i partiti che avevano governato l’Italia dal dopo guerra, individuando nella conventio ad excludendum del Pci dal potere una delle cause dell’abisso morale nel quale era stata precipitata la politica. E invece in quell’abisso trent’anni dopo ci è sprofondata – spinta dalla propria classe dirigente – anche l’intera sinistra.

[…] Il marchio di infamia per la sinistra e il Pd risiede nel venir meno di quella tensione ideale e morale alla quale si riferiva Berlinguer e, dunque, nel tradimento della sua battaglia che è evidente nel sistematico sedersi, senza più distinguersi e neppure immaginarsi diversi, al tavolo al quale sono seduti coloro che hanno occupato lo Stato. E ciò dimostra che, per conformismo e convenienza, il centrosinistra, e ora il Pd, invece di combattere per sconfiggere il sistema denunciato da Berlinguer se ne è fatto assorbire, se ne è fatto complice, tradendo, appunto, in questo modo lo stesso Berlinguer e assumendosi una gravissima responsabilità storica. Che è questa: «L’Italia – scriveva Pier Paolo Pasolini – sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo».

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