Parlamento
Dai partiti di massa alla massa dei partiti
La democrazia rappresentativa è all’ultimo valzer?
La frammentazione partitica ha una lunga storia, inizia ben prima del 1992 ed è figlia dello scioglimento del ghiaccio ideologico e programmatico. In epoca pliocenica, per volere di Togliatti, il PCI post bellico diventa un partito di massa, gerarchizzato, stratificato nel territorio e longitudinale nella sua articolazione organizzativa. Il compito di costruirlo così viene affidato a Pietro Secchia, il compagno che sognò a lungo la lotta armata. La tela organizzativa diviene la capacità di analizzare le varie componenti aggregative del partito, l’UDI, il sindacato, il territorio. Si parte dalle cellule che si riuniscono in sezioni, quindi in federazioni secondo uno schema che facilita la trasmissione veloce delle direttive centrali agli organi periferici. I quali hanno il compito di recepire il sentire politico della base e le sue esigenze.
Uno schema ben applicabile al Nord dove l’esperienza partigiana aveva costituito un primo modello organizzativo. Ma il Sud è più riluttante e meno propenso ad uno schema rigido. Partono dunque dal Nord militanti esperti, capaci di costruire una rete politica territoriale. Esperienza che si protrarrà a lungo, basti pensare ad Occhetto, torinese, segretario regionale del PCI in Sicilia negli anni sessanta-settanta, Pietro Folena, padovano, segretario regionale sempre in Sicilia alla fine degli anni ottanta. Lo stesso D’Alema da Pisa in Puglia.
Già alla fine del ’45, il PCI ha già quasi 2 milioni di iscritti organizzati in 7000 sezioni e 30.000 cellule. Per sviluppare e mantenere questa base organizzativa, nasce il rivoluzionario di professione, l’impiegato ideologico, l’apparatniki che compie il lavoro a tempo pieno. Uno schema che si riprodurrà all’infinito fino a costituire l’ossatura dominante dell’attuale PD.
Il collante fondamentale è il credo ideologico. Un collante formidabile per quegli anni che consente di attuare le direttive seguendo lo spirito di sacrificio, di tenacia costruttiva senza tentazioni critiche nell’interesse superiore del partito. Nascono le scuole di partito, di cui quella delle Frattocchie, è il crogiolo didattico più alto. I dirigenti del PCI conducono, come molti politici di primo piano dell’epoca, una vita monastica, povera fino all’inverosimile e soprattutto priva di ambizioni personali.
Lo schema dell’altro partito di massa, quello democristiano, è fondamentalmente diverso. Nasce da un’aggregazione popolare, sturziana, legata all’Ecclesia, al Campanile della chiesa come punto di riferimento spontaneo. La matrice cristiana è il collante. Il primo Governo di centro-sinistra di Aldo Moro cadde nel 1964 sulla votazione dei sussidi alla scuola materna privata, quella delle suore e dei preti per intenderci. In definitiva prevale sempre nell’etica politica la matrice cristiana e la tendenza alla difesa “contro” qualche nemico da combattere piuttosto che volto a definire un “per” qualcosa da costruire. Una sorta di riesumazione della santa crociata, questa volta permanente.
L’organizzazione voluta da De Gasperi e da Scelba è prevalentemente su base familiare, il nucleo primitivo che si trasforma in crociata “contro” il nemico di turno. Sin dal 1948, la cosa funzionò così: il nemico è il Blocco del Popolo, ateo, anticristiano ed anticlericale. Poi, nel 1949, il Patto Atlantico fu l’altro terreno di scontro frontale in un mondo bipolare. Lo scontro frontale, la crociata aveva il compito di rendere solidali tutte le componenti strategiche, spesso diversissime tra loro, tutte incastonate in un ceto medio eclettico e polifattoriale.
La seconda caratteristica fu quella sociale, solidaristica. Il fronte di questa armata fu la sinistra dossettiana, aperta alle necessità popolari, ma intesa come forza di spinta e penetrazione nella massa popolare social-comunista. Ebbe poca vita perché Dossetti, piuttosto che lasciarsi strumentalizzare, preferì il convento e la vita monastica.
Ma la penetrazione a cuneo nella massa popolare fu la forza di Amintore Fanfani con le armi governative. Il piano casa, la riforma agraria, furono le armi di “convincimento” popolare con ricchi frutti elettorali a partire dal 1958. Un piano di sussidi strutturali, altro che mancette a pioggia da 80 €. Il territorio del Pci era fatto di classe operaia al Nord, di classe agricola e bracciantizia al Sud ed in genere nel mondo intellettuale mentre la Dc aveva esteso la sua egemonia sulle classi medio-borghesi. Su questa base aveva anche catturato l’attenzione di potentati industriali al Nord e delle realtà onnipotenti del Sud.
Il Partito Monoteista e il Civismo
Crinale temporale, 1992. In principio fu Pannella. La lista Pannella inaugurò nel 1994 la serie dei partiti nominalistici o monoteisti. Il leader impersonava il riferimento politico e quindi era lui il partito. Alla denominazione di Lista Pannella, Lista Segni, Lista Dini, Lista Casini e Lista Di Pietro, si è arrivati attraverso un processo, neanche lento ma comunque surrettizio, in cui il partito di riferimento si identificava con il leader carismatico.
Nel 1993 fanno irruzione nella scena politica due nuovi soggetti, le Liste Civiche, tendenzialmente apartitiche e, con la Legge 81/93, l’unica vera riforma elettorale, i Sindaci ad elezione diretta, quasi contraltare al civismo dilagante. Contromossa gerarchica alla rivoluzione civica leghista dal basso. Il risultato è che appena il 26,1% dei sindaci del 1998 si dichiara eletto nelle fila di un partito rappresentato in Parlamento (contando anche i sindaci delle Leghe, della Svp, dell’Uv e del Partito Sardo d’Azione). “Tanti nuovi piccoli presidenti”, titola il Sole 24Ore un’analisi del 22 agosto 1999 firmata da Ilvo Diamanti: “La nuova legge trasforma i borgomastri tra le figure più legittimate del panorama politico italiano, in grado di competere con i principali leader nazionali sul piano della popolarità e dell’autorevolezza…”.
Questa evoluzione, che può anche essere interpretata come involuzione, ha portato alla frammentazione subatomica, potenziata dalla confusione ingenerata da una legge elettorale che non definisce i confini principali, proporzionale o maggioritario. Non sciogliendo questo nodo, poiché la frammentazione impedisce il raggiungimento della maggioranza, non resta che utilizzare lo strumento coalitivo quale trigger per superare gli avversari. Ergo, la frammentazione risulta essere strumento di superamento dei limiti imposti dalla legge.
Per sé, già questo pone le basi per il decollo del movimento populista, diverso da quello civico con cui ha in comune la distanza programmata dall’organizzazione partitica e gerarchica. Tuttavia se ne distingue perché si oppone al burocraticismo, “mostra tendenza anarcoide con alquanta faciloneria e demagogia” (dalla definizione del Devoto). Il populismo è dunque categoria politica nella quale rientrava tempo addietro il movimento anarchico e quello nichilista, inteso come dottrina tendente alla negazione di ogni forma di valori o principi costituiti. Comunque anti-sistema.
Pertanto si presuppone che gli antagonisti del populismo siano riconoscibili e organici alle forme coerenti di rappresentazione politica. Un antidoto al populismo dovrebbe essere quello di mantenere identità politiche qualificanti e smarcanti. Ma non sempre è così.
La dispersione dei simboli
In versione cromatica, un po’ come le bandierine di Fede, il rosso, sia pure nelle sue sfumature, dovrebbe indicare una fede sicuramente marxista, sia pure deprivata di falce e martello, ora obsoleti. Riformismo di Governo, rosso pallido e sinistra rosso mattone, beh ci sono. Da valutare se le sfumature cromatiche corrispondano agli intendimenti politici.
Nella galassia PD appare anche (Civica Popolare) un blu-azzurro che dovrebbe ricordarci lo scudo crociato e difatti lo troviamo in Dallai et al., che non hanno mai sconfessato le origini poi abbellite dalla primissima Margherita. Ci sono ex di Forza Italia, ex centristi di Casini, ex dipietristi etc. Ed ancora, sia Casini sia forse Di Pietro si candidano con il PD e con LeU. Un mix di destra, capitanato da una esponente, appena qualche anno fa di Forza Italia, e che adesso è nell’orbita del PD.
La gamba laica, socialisti nenciniani, residui dei Verdi e ulivisti, appaiono non come portatori di identità ben definite, rosso socialista e verde-ecologista ma come sparuti gruppi atti a prendere qualche seggio piuttosto che tirare la volata con orde votanti e vocianti di socialisti ed ambientalisti. I quali peraltro- ma almeno questa appare una strategia- sono presenti un po’ ovunque come a significare la trasversalità del progetto no-nuke e no-coal e per indicare che, nel futuro, leggi di salvaguardia ambientale potranno contare su un largo schieramento. ILVA docet, Piombino requiescat etc. Insomma un tourbillon inquietante che non rassicura l’elettore e tanto meno l’elettrice che vede una presenza sempre meno consistente di genere. Denominatore comune: non spaventare l’elettore moderato di centro senza il quale- il teorema è dalemiano- non si vince. In definitiva la bandiera rosso-socialista e quella verde-ecologista appaiono sfilacciate, non espressive di corrente di massa bensì di piccoli e sparuti gruppi.
In summa, la dispersione dei simboli e la miniaturizzazione politica non sembra essere il migliore antidoto al populismo ma in buona sostanza una delle cause che lo ha generato. Nel futuro come saranno i Gruppi Parlamentari? Non certo 4 come nella XVI Legislatura, ogni parlamentare sarà un gruppo di riferimento?
Dimenticato qualcuno? Beh sì la destra-centro! No, quella non si dimentica mai, ce lo ricorda il Sindaco di Amatrice con proclami da “macchina del tempo indietro”. Più o meno incollati (lo scrivemmo 20 anni addietro sul nostro giornale di “per la sinistra “, il Titolo): anche allora la destra era incollata con l’attack. Ma dati per vincenti. Nell’opinione di chi scrive, semplicemente perché, pur non avendo programmi, salvo qualche slogan desueto, si identificano, sono visibili e lanciano segnale chiari da non dover imporre la decrittazione, come la paura che ricorda la macchietta di Antonio Albanese, il Ministro della Paura. Già i segnali, come quello perdente che lanciammo con Dario Fo nel 2006, quando disse, e con lui anche noi che gli stavamo attorno, “ Io non sono Moderato”. Se non altro, non solo disse qualcosa di sinistra ma lo disse chiaro e forte.
Fonti
Mafai M. L’uomo che sognava la lotta armata. Rizzoli, 1984
Ferrara A.-Nicotri P.- Besostri FC. Dai partiti di massa ai Sindaci ” fuori dal Comune”. Agora&Co, Lugano, 2014
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