Parlamento

Chi ha tradito Berlinguer? O del fascismo della sinistra post-ideologica

11 Giugno 2015

Autunno 2012. Nel pieno di una crisi economica che si è divorata la borghesia figurarsi gli operai, i metalmeccanici tornano in piazza, occupano le fabbriche, salgono sulle ciminiere. Si rivedono addirittura i minatori. Di ciò nel Partito democratico quasi non si parla: c’è da organizzare le primarie e discutere di alleanze, vale a dire tenere in piedi le strutture che servono a gestire il potere, dentro e fuori il partito. Per occuparsi d’altro c’è poco spazio. […] Nessuna sorpresa, però. La storia del Pd, in fondo, era iniziata nello stesso modo.

Era il 2007, erano i mesi nei quali Ds e Margherita si avviavano a confluire in un nuovo partito. Ci sarebbero stati da scegliere gli ingredienti dell’amalgama, si sarebbe dovuto dare inizio alla discussione su ciò che il futuro Partito democratico avrebbe raccontato ai propri elettori a proposito di economia, giustizia, diritti. Eppure, «prima facciamo il partito, poi verrà il resto» era la consueta risposta che veniva rifilata al cronista che invece di domandare di alleanze e correnti si avventurava su strade molto meno battute per capire quali ingredienti sarebbero stati scelti. Ed era come dire: prima si realizzano le strutture che servono a gestire il potere dentro il partito, poi si vedrà come utilizzare quel potere. Anni dopo siamo ancora lì, a osservare un tentativo maldestro di manutenzione di un potere sempre più fine a se stesso e circoscritto a un gruppo di dirigenti, sempre gli stessi e incapaci di esprimersi su temi decisivi per la società. Le incertezze – ma è un eufemismo – sui diritti civili, terreno d’elezione per la sinistra, ne sono uno degli esempi più evidenti e dolorosi. Insomma, avrebbe dovuto essere un partito liquido, è stato sin dall’inizio addirittura impalpabile.

Una simile forza politica non poteva essere in grado di opporsi alla rivoluzione imposta da Silvio Berlusconi il quale si era sin dall’inizio posto in rapporto diretto con il Paese, saltando ogni mediazione, cancellando ogni corpo intermedio tra sé e il popolo, aprendo così le porte a quella presidenzializzazione che ha finito per travolgere il ruolo del Parlamento. Il fatto, però, è che in quel progetto si è ben presto accomodato anche il centrosinistra […] che sì, inizialmente alza il sopracciglio, ma alla fine non protesta nemmeno più. E, anzi, assume questa prospettiva come l’unica entro la quale costruire un ragionamento politico. Quando, anni dopo nascerà il Pd, il centrosinistra sarà ormai afono; così, il nuovo partito, imparata la lezione del Cavaliere, si fa anch’esso di plastica. […]. Qualche anno dopo, la vittoria di Silvio Berlusconi sarà assoluta. E non sarà una vittoria da misurare sul numero di voti rimediati alle elezioni. Sarà una vittoria culturale, e per questo definitiva.

Così, nella storia del centrosinistra post-comunista, il Pd appare soltanto come una ulteriore tappa di una infinita traversata nel deserto. […] Come con Berlusconi nel Pdl, anche sull’altro fronte emerge la possibilità di una figura carismatica in grado di poter contare in Parlamento su una nutrita pattuglia di fedelissimi, mettendo ulteriormente in crisi il ruolo del Parlamento. […]. Ed ecco che, se il partito non è più fatto di idee e se i punti di riferimento disintegrati anni prima non sono mai stati ricostruiti, se infine a prevalere sulle idee è l’immagine o il marketing politico, allora diventa inevitabile che la tattica prenda il sopravvento sulla strategia e in mancanza di punti di riferimento ideali si viva alla giornata. Così, anche a sinistra si finisce per rincorrere sempre di più l’onda emotiva provocata dai fatti di cronaca, si ascolta la pancia del Paese, la si blandisce, la si rassicura e la si insegue, senza più essere capaci di proporre un progetto ideale. Si ricorderà, tra i tanti esempi possibili, la sterzata securitaria imposta nel 2007 da Walter Veltroni, all’epoca ancora sindaco di Roma, al presidente del Consiglio Romano Prodi dopo un brutto fatto di cronaca nera. E, però, quando un partito non è più capace di proporre un progetto e delle idee ecco che a contare davvero sono soprattutto le persone, i rapporti personali, il legame col leader. Nascono le correnti anche nel Pd. Ma è difficile cogliere le differenze ideologiche tra l’una e l’altra. Ciascuna, fa capo a un leader, non a una idea della politica. E quel partito oramai assomiglia pericolosamente ad un fascio di camarille.

Camarille, già. Camarille è una parola utilizzata da Enrico Berlinguer nella celeberrima intervista sulla questione morale pubblicata nel luglio 1981. «I partiti non fanno più politica», osservava il segretario del Partito Comunista Italiano il quale rivendicava con forza la diversità del Pci e spiegava: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”». «I partiti – diceva ancora Berlinguer – hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. […] La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati».
Berlinguer stava attaccando la Democrazia cristiana, il Partito socialista, i partiti che avevano governato l’Italia dal dopo guerra, individuando nella conventio ad excludendum del Pci dal potere una delle cause dell’abisso morale nel quale era stata precipitata la politica. E invece in quell’abisso trent’anni dopo ci è sprofondata – spinta dalla propria classe dirigente – anche l’intera sinistra.

Capita – ma è soltanto un esempio tra i tanti, i troppi che la cronaca racconta – che nel settembre 2012 mentre nel mondo reale si fanno i conti con le conseguenze della crisi, a Palazzo si devono invece fare i conti ancora una volta con alcune opacità relative al finanziamento pubblico della politica. Tra i tanti, tantissimi casi, uno riguarda la Regione Lazio. Il Pdl, che è al governo, viene scosso da uno scandalo che si guadagna le aperture dei giornali nazionali anche a causa di certi personaggi a dir poco grotteschi. Emerge una faida che spacca il partito, anzi lo frantuma. In poche ore la linea di faglia risale sino al vertice nazionale, e la situazione diventa talmente preoccupante che il gruppo dirigente del Pdl corre a riunirsi a Palazzo Grazioli con Silvio Berlusconi. Il Paese è attonito, rabbioso. Interviene il Capo dello Stato; intervengono i vescovi italiani, addirittura il Papa. Tutti gridano allo scandalo, parlano di vergogna, chiedono moralità. Alla fine, il presidente di centrodestra della Regione è costretto a dimettersi. Tra le tante voci che si sono levate per gridare la propria indignazione, però, una manca all’appello; incredibilmente è quella del Pd.

Sì, perché il capogruppo regionale del partito – che nel Lazio è all’opposizione – invece di azzannare l’avversario si è dovuto trascinare di tv in tv per chiedere penosamente scusa: avremmo dovuto – dice – non prendere anche noi quei soldi. E così si scopre che nel pieno della crisi economica, la maggioranza di centrodestra deliberava misure lacrime e sangue a carico dei cittadini ma poi, senza dare alla cosa troppa pubblicità e d’accordo con l’opposizione, aumentava i fondi a disposizione dei gruppi regionali: un bel regalo per tutti i partiti, un regalo da molti milioni di euro. In silenzio, e senza dover giustificare nulla o quasi. L’unica differenza, alla fine, tra i partiti fu come quei soldi erano stati spesi. Una differenza non di poco conto, peraltro: è quella che passa tra la legalità e l’illegalità. E, però, il punto politico è nella scelta di spartirsi i milioni, in silenzio e nonostante tutto; scelta ancor più scellerata in quanto, allo scoppio dello scandalo, ha tagliato le gambe al Pd impedendogli di cavalcare le notizie.

Ma, soprattutto, il marchio di infamia per la sinistra e il Pd risiede nel venir meno di quella tensione ideale e morale alla quale si riferiva Berlinguer e, dunque, nel tradimento della sua battaglia, un tradimento che è evidente [non tanto in un generico “rubare”, che è cosa che eventualmente, e da che mondo e mondo come testimonia addirittura l’Antico Testamento, ha a che fare con l’essere umano, quanto piuttosto] nel sistematico sedersi, senza più distinguersi e neppure immaginarsi diversi, al tavolo al quale sono seduti coloro che hanno occupato lo Stato [tanto che, a proposito di quella famosa intervista concessa a Eugenio Scalfari, si dovrebbe più correttamente parlare di questione politica, e non di questione morale, giacché è soprattutto questo il problema che pone Berlinguer]. E ciò dimostra che, per conformismo e convenienza, il centrosinistra, e ora il Pd, invece di combattere per sconfiggere il sistema denunciato da Berlinguer se ne è fatto assorbire, se ne è fatto complice, tradendo, appunto, in questo modo lo stesso Berlinguer e assumendosi una gravissima responsabilità storica. Che è questa: «L’Italia – scrisse Pier Paolo Pasolini – sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo».

Il testo qui pubblicato è un breve estratto dal libro «Hanno ammazzato Montesquieu!», uscito in libreria per Castelvecchi nel 2013 e quindi addirittura in epoca pre-renziana! Con i necessari tagli e piccoli rimaneggiamenti, e sperando che non si si sia perso del tutto il senso del discorso, lo ripubblico qui oggi, anniversario della morte di Enrico Berlinguer.

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