Parlamento
Che imbarazzo stare sul fronte del Sì
Detto che quelli del No al referendum del 4 dicembre sono un accrocchio improponibile, bisognerebbe aggiungere che quelli del Sì non sono poi da meno. E va bene che Matteo Renzi ha ingaggiato – strapagandolo – il già stratega di Obama Jim Messina, ma bisognerebbe anche ricordarsi che simili guru, sbarcati in Europa, non hanno mai (o quasi) rimediato una gran figura: David Axelord, altro spin doctor di Obama, curò la campagna di Monti nel 2013, lo stesso Messina ha lavorato con David Cameron durante la infelice campagna sulla Brexit.
Insomma, bene trovare qualcuno che pensa alle cose da dire prima che queste vengano dette, ma un tutor servirebbe anche ai renziani – insomma, i militanti, i fanatici, quelli lì, el pueblo rottamatore o aspirante tale –, che ormai sono praticamente dei grillini senza le scie chimiche e straparlano su Facebook citando a sproposito il Bundesrat tedesco e strumentalizzando Nilde Iotti e Ingrao. Matteo se la cava benissimo da solo, ma i suoi militanti distribuiti in maniera più o meno omogenea in tutte le sezioni del Pd non sembrano esattamente dei fulmini di guerra, al contrario la loro presenza genera soltanto confusione e fastidio: una campagna a colpi di «abbattiamo i costi della politica» è nauseabonda oltre che falsa, per non dire di quelli che «entriamo nel merito». Sono proprio quelli del Sì, infatti, i primi a fuggire dalle questioni di merito: sulla riforma diverse domande sono senza risposta, a partire dalla riformulazione dell’articolo 70 della Costituzione, che passa da tre righe piuttosto chiare a trenta righe scritte in una lingua che è soltanto simile all’italiano.
E poi siamo davvero sicuri che la fine – anzi «questa fine» – del bicameralismo perfetto sia una manna dal cielo? Il nuovo parlamento combinato con la sciagurata legge elettorale chiamata un po’ enfaticamente Italicum è una pietra tombale su quella che una volta era la straordinaria ricchezza politica italiana. Il percorso è già in atto da diverso tempo, ma il pacchetto «Riforma più Italicum» renderebbe il parlamento la casa soltanto di pochissime formazioni politiche, passando un colpo di spugna sopra grandi tradizioni come quelle dei repubblicani, dei liberali, dei socialisti, addirittura dei comunisti. Dite che già non esistono più? Forse è vero, si tratta di residui, ma siamo sicuri che da quando queste formazioni sono scomparse il dibattito politico si sia alzato di livello? Adesso si va sempre di più verso una malsana contrapposizione tra populismo di governo e populismo di opposizione, e tanti sono passati nel giro di pochi mesi dalla delusione alla disillusione, fino ad approdare al completo disinteresse. Il problema non è (solo) la forma che avrà l’assemblea legislativa, ma è innegabile che qui si va verso un post-cameralismo confuso e senza sbocchi nel paese reale. Infatti si calcola che circa un elettore su due non andrà a votare al referendum. Poi ci sarebbe la nota questione del monito lanciato da Jp Morgan sulle costituzioni nate dopo la Seconda Guerra Mondiale. Nessun complottismo – per carità del cielo –, chiariamo subito che Jp Morgan opera in pieno diritto e può dire, pensare e divulgare quello che più ritiene opportuno. Qui il problema è nell’inversione dei rapporti di forza: una volta era il banchiere che era costretto a fare anticamera davanti all’ufficio del politico, oggi è il contrario. Sarebbe ancora preferibile che a prendere decisioni importanti siano politici eletti e non manager scelti da più o meno importanti consigli d’amministrazione, o no?
Sui tempi legislativi, infine, siamo alla menzogna: l’Italia non ha un problema di stitichezza nello scrivere e promulgare leggi, ma ne fa anche troppe, andando a normare di tutto e di più. E il metodo? Alzi la mano chi pensa che sia una cosa normale far riformare la Costituzione, la legge fondamentale dello Stato, a un parlamento eletto con una legge dichiarata incostituzionale, imboccato da un governo nato da accordi e dinamiche distanti anni luce da quelle che erano le intenzioni prima delle politiche del 2013 (sembra passata una vita, eh?). Sostenere, a questo punto, che la riforma sia stata comunque partorita da Camera e Senato ha del demenziale, soprattutto visto che il capo del governo è anche il segretario del partito con il maggior numero di eletti. Di motivi per non votare Sì, a conti fatti, ce ne sono parecchi: si possono leggere in libreria, sui giornali, su internet. Certo, non sempre c’è grande lucidità nelle analisi, ma le argomentazioni di merito certo non mancano. Renzi dice il contrario e lo fa per propaganda, i renziani ci credono e lo ripetono senza capire davvero di cosa si stia parlando.
Al netto dei riciclati, a scorrere le facce e i nomi di chi ha deciso di fondare un comitato per il Sì c’è da farsi venire la pelle d’oca. È difficile avere nostalgia dei vecchi Ds e delle liturgie del passato, ma siamo di fronte al nulla di chi crede di essere investito dalla missione suprema di cambiare le cose solo per il gusto di cambiarle. Molti sostenitori del Sì si sono adagiati su una tesi: il paese è sull’orlo del precipizio, o ci diamo una mossa o crolliamo. Quale mossa? Non ha importanza, è secondario, è superfluo. Viene da chiedersi perché, a questo punto, dieci anni fa questa gente non abbia votato favorevolmente alla riforma costituzionale di Berlusconi. Già, Berlusconi. Renzi l’ha detto: «Se uno di destra guarda il merito della riforma, vota Sì». Ha ragione, ma perché «il più grande partito socialdemocratico d’Europa» dovrebbe proporre una revisione costituzionale che sarebbe – nel merito – la gioia dei conservatori? Si dirà che senza i voti della destra non si vince, ma così è come ammettere che la politica non ha più senso e allora prima o poi nelle sedi del Pd si farà anche il tesseramento per Forza Italia.
Ma chi sono, in fondo, i «veri renziani»? Parliamo di quelli della prima ora, non di chi è salito sul carro del vincitore nel periodo del congresso stravinto contro Cuperlo e Civati, e che comunque quando anche il cadavere del rottamatore passerà lungo il fiume provvederà prontamente a ricollocarsi da qualche altra parte. I renziani della prima ora sono quelli che il «vecchio partito», insomma la Ditta, lasciava ai margini perché completamente incolti sulle questioni politiche, quelli che alle assemblee di circolo dicevano di volersi candidare perché «è la gente che me lo chiede» e venivano bollati senza appello come confusi demagoghi, quelli che «Berlusconi come politico è quello che è, ma come imprenditore niente da dire», come da memorabile video del Terzo Segreto di Satira. Ecco, loro e gli ex margheritini. Renzi non è nato dal nulla, ma ha una solida formazione neo-democristiana, imparata in anni di militanza nel partito più camaleontico degli anni zero: appunto, la Margherita. La sua ascesa è stata un misto di abilità e contingenze favorevoli: il mancato accordo tra Grillo e Bersani, lo scarsissimo entusiasmo per Letta, l’oggettiva mancanza di alternative.
Lui lo sapeva e ha lavorato duro per aprire tutte le contraddizioni di un sistema politico in fase di dismissione e infilarcisi dentro. Il trionfo delle europee non era l’onda lunga del cambiamento, ma a una reazione alla stanchezza diffusa, un affare momentaneo, e infatti quella marea di consensi, a distanza di due anni, si è molto attenuata. I suoi più affezionati fan pensano ancora di essere i portatori sanissimi del vento del cambiamento, ma in realtà sono solo «un volgo disperso che nome non ha». Perché essere qualcosisti non vuol dire necessariamente essere anche qualcosa.
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