Parlamento
Calenda, l’eterno dilemma del Pd e il futuro dei liberali
Alla politica italiana non erano sufficienti le numerose modalità per manifestare la propria inadeguatezza di fronte alla complessa situazione in cui si trova il nostro paese. Dopo l’imbarazzo dell’elezione presidenziale dello scorso gennaio e la grottesca crisi di governo di luglio si pensava ad ogni modo che per quest’estate fatti peggiori non potessero accadere, almeno fino alle elezioni. E invece le giravolte, gli accordi, le ammucchiate, le polemiche social e gli strappi giunti in una sequenza sempre più incalzante nel corso della settimana passata hanno smentito ogni ottimistica previsione. Questa volta però lo psicodramma è tutto interno ad un’area politica, quella (teorica) di centro-sinistra, o se si preferisce, di cultura cattolico, liberal e social-democratica. Il sospirato accordo politico tra la coppia Azione – Più Europa e il Pd si è dissolto infatti nel giro di cinque giorni, in diretta tv durante un’afosa domenica d’agosto, tra insulti, recriminazioni e invettive reciproche a mezzo Twitter. Alleanza stracciata, quindi, e sostanziale regalo alla coalizione di centro-destra, oggi apparentemente coesa e pronta a fare incetta di collegi uninominali il 25 settembre prossimo. Carlo Calenda, autore del drammatico strappo, è dunque diventato il villain di questa mezza estate 2022, da far impallidire Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Responsabile di aver rotto la grande alleanza contro le destre (va di moda dire così), pronte a consegnare il paese a Putin e Orban e a fare a pezzi la Costituzione, sicuro capro espiatorio per tutti da innalzare il giorno dopo di una sconfitta già molto probabile, oggi quasi certa, per purificare le coscienze di coloro che, a sinistra, hanno sempre e comunque ragione.
L’accordo di martedì 2 agosto aveva riunito i due principali soggetti dell’area di centro-sinistra, in un patto di governo che si ispirava largamente all’operato e allo spirito del governo Draghi, definito con la ormai celeberrima agenda omonima, con particolare attenzione a richiamarne la continuità sul posizionamento internazionale e sulla crisi energetica. Il programma delineato e il rapporto con cui erano state divise le candidature nei collegi uninominali evidenziava un consistente successo negoziale per Calenda e Benedetto Della Vedova, capaci di legare il Pd ad una linea politica riformista e pragmatica, ma conteneva in sé i presupposti per generare nuovi attriti e scontri in quello che veniva definito campo largo, ora depurato dal M5s, reo di draghicidio. Non era difficile immaginare l’esplosione di rabbia da parte degli assenti, ovvero i cocomeri di Si-Verdi e gli ex grillini facenti capo a Luigi di Maio, non particolarmente graditi da Calenda, questi per la loro storia personale e quelli per palesi incompatibilità politica, ma non disposti a farsi da parte e rinunciare all’alleanza con il Pd. Le polemiche, gli attacchi, gli insulti reciproci inviati perlopiù a mezzo social nei giorni seguenti non facevano che anticipare quel che sarebbe successo nel weekend, con i nuovi teoricamente complementari accordi degli esclusi con i Democratici e il conseguente addio alla coalizione di Azione, in polemica pure con Più Europa, rimasta invece sul carro un po’ barcollante condotto da Enrico Letta.
La motivazione della creazione di una coalizione contenente attori così lontani politicamente, da Calenda a Fratoianni, risiedeva evidentemente nella necessità di raccogliere il maggior numero di voti possibili nei collegi uninominali, costituenti il 37% dei seggi in palio, in modo da poter competere con il largamente favorito centro-destra, in ossequio all’attuale sistema elettorale. Ciò nonostante, le difficoltà di tale strategia erano notevoli e non potevano essere certo sottovalutate, testimoniate dalla stessa scelta di Enrico Letta di negoziare separatamente con i vari soggetti. Il risultato è stato un complicato rebus con tre differenti accordi presentati in modo diverso, quello con Calenda maggiormente orientato ad una prospettiva di governo e gli altri due ispirati ad una logica apparentemente elettorale finalizzata alla difesa della Costituzione dai possibili attacchi provenienti da una larga maggioranza a trazione sovranista. Senonché, anche negli accordi teoricamente solo elettorali, venivano espressi convincimenti diversi e a volte contrari rispetto a quanto concordato con Azione – Più Europa quattro giorni prima, in particolare sul tema energetico, e le bordate mediatiche con cui si erano bersagliati i protagonisti agli estremi della teorica alleanza avevano raggiunto un livello imbarazzante. Era evidente a tutti che una così fatta coalizione poteva stare in piedi solo con un grande sforzo di pazienza e rinuncia ad esprimere con forza le proprie idee e identità politiche da parte dei rispettivi leader. Tale eventualità non si è verificata e probabilmente era un’illusione anche solo pensare che potesse farlo, in una campagna per le elezioni politiche, considerate le notevoli differenze programmatiche, praticamente su quasi ogni tematica, e valutati i caratteri dei soggetti in campo, a cominciare da quello di Calenda.
Tuttavia, pur nella necessità di presentare una coalizione ampia nei collegi, quella proposta dalla strategia di Enrico Letta era chiaramente un’alleanza mancante di credibilità. Su moltissimi temi i partiti che l’avrebbero dovuta comporre sarebbero stati su posizioni diametralmente antitetiche, dalla politica estera a quella energetica, fino alle stesse politiche economiche. Anche se Calenda e Fratoianni si fossero tappati la bocca per due mesi, quale sarebbe stata la fiducia che tale raggruppamento avrebbe infuso agli elettori, senza neanche la capacità di redigere un programma politico comune? Come avrebbero potuto cercare di spiegare quel che si sarebbero proposti di realizzare una volta al governo, e come realizzarlo? A nessuno sarebbe sfuggito che di finzione si sarebbe trattato. Una finzione messa in atto per combattere la destra, in ogni modo e ad ogni costo, seguendo il solito schema di contrapposizione frontale e additamento del pericolo (sovranista? autocratico? fascista?) presentato dagli avversari vigente a sinistra. Come se si dovesse considerare l’Italia un paese con istituzioni così fragili e maturità democratica così scarsa, dopo oltre 75 anni di appartenenza al mondo libero e democratico, da dover costituire un nuovo CLN. Una tale visione, oltre a confliggere apertamente con la realtà, non fa altro che proporre allo sfinimento la strategia del voto contro qualcuno, mai per qualcosa. Si continuano a trattare gli Italiani come bambini, invece che come adulti, da convincere con proposte più serie e credibili rispetto a quelle dell’avversario, che di certo in questo senso non brilla. Non è quasi mai finita bene in passato, sarà molto probabilmente così anche questa volta. Per la sinistra italiana, e per l’Italia stessa, prigioniera di un sistema politico pluri-fallito, che da trent’anni cerca di scimmiottare un bipolarismo diventato invece da tempo bi-populismo. Nel perseguimento di una tale strategia politica sta l’errore primo, al di là delle rotture e dei patti stracciati, che ne sono la conseguenza. E la responsabilità principale di tale errore non può essere che di colui che l’ha perseguita, il segretario del partito teoricamente perno dell’alleanza, Enrico Letta.
Emerge in queste settimane ancora una volta l’eterno dilemma su cosa voglia essere il Pd, rimasto in sospeso fin dalla sua nascita, come scrive anche oggi sul Corriere Michele Salvati: un partito riformista, di sinistra liberale, con un chiaro indirizzo di collaborazione con altre forze liberal-democratiche ed europeiste, oppure un soggetto di sinistra vecchio stile, con gli occhi rivolti a movimenti e partiti populisti o con posizioni all’estremità dello spettro politico, come il M5s o SI. Durante le segreterie Zingaretti e Letta il Pd ha insistentemente cercato la via dell’alleanza con il M5s, nonostante le ripetute cadute di quest’ultimo in un populismo dal quale è nato e non riesce ad affrancarsi. Ripagato dal partito di Conte con evidente ritrosia all’alleanza e poi con la sfiducia al governo Draghi, che ha reso impraticabile il proseguimento del dialogo (per ora), aveva la possibilità di virare convintamente verso la creazione di un asse con forze compatibili con un programma ispirato al merito e al metodo della positiva esperienza di Draghi a Palazzo Chigi, inclusa Italia Viva di Matteo Renzi. Invece ha preferito corteggiare anche i partiti di Fratoianni e Bonelli, nell’ossessione di non avere nemici a sinistra, anche in virtù di forti pressioni sul Segretario da parte della ditta, nella convinzione, mal riposta, che Calenda non se ne sarebbe andato (a causa della questione firme?), neppure di fronte alla sigla di patti diversi e in parte contraddittori. Fuor di dubbio è stata l’ingenuità del leader di Azione, il quale ha palesemente sbagliato a illudersi che i Democratici non avrebbero cercato a tutti i costi l’alleanza a sinistra, ma in politica gli accordi si fanno e si disfano, per quanto poi si paghi sempre un prezzo. Tuttavia il punto centrale della vicenda è un altro: l’operato di Enrico Letta dimostra mancanza di coraggio, linearità, chiarezza, credibilità. E’ facile immaginare che al Nazareno difficilmente potranno in questo modo vincere le elezioni, né a settembre, né in futuro.
Dalle vicende frenetiche e a volte surreali della scorsa settimana è emersa però una certa chiarezza di fondo. Il Partito Democratico si è confermato posizionato a sinistra, senza particolare interesse a proporsi come continuatore delle politiche del governo Draghi, la cui agenda è stata usata più che altro come espediente tattico di campagna elettorale, con gli alleati di Più Europa utilizzati come specchietto per le allodole. I liberal-democratici italiani, se vogliono avere un futuro politico e far pesare la loro voce, hanno la necessità di costituire un nuovo soggetto, come accaduto in questi ultimissimi giorni con la convergenza di Azione e Italia Viva. Un soggetto che sarà lista elettorale presente alle elezioni di settembre, naturalmente, ma che dovrà soprattutto strutturarsi nei prossimi mesi, diventando un vero Partito Liberaldemocratico, come mai abbiamo avuto in Italia negli ultimi trent’anni. Per far questo sarà necessaria una presa di coscienza dei due galli nel pollaio, Matteo Renzi e Carlo Calenda, i quali dovranno mettere da parte le loro rivalità personali, la spregiudicatezza tattica dell’uno e la scarsa attitudine alla mediazione dell’altro. Vaste programme, ma unica soluzione per cavare qualcosa di buono e di duraturo da questa situazione. Ci si poteva giungere forse prima e in maniera più lineare, ma ci si può comunque arrivare, adesso. Nella consapevolezza che tutto passerà dal voto del 25 Settembre, in cui la strada da percorrere per non farsi schiacciare dal bi-populismo delle due coalizioni dominanti non sarà certo agile.
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