Parlamento
A proposito di Christian Raimo e della Commissione Segre
10 Novembre 2019
Molto ingenuamente credevo che la Sinistra italiana, presa tutta intera dai liberal ai marxisti, avrebbe potuto mostrarsi unita per un giorno o due almeno attorno all’idea di Liliana Segre di istituire una commissione parlamentare su odio, razzismo e antisemitismo. Credevo che di fronte all’astensione compatta del centrodestra – non sorprendente, ma comunque preoccupante – si potesse riconoscere ancora un brandello di identità comune, che di fronte agli insulti e alle minacce che la Senatrice Segre riceve quotidianamente e ai vomitevoli distinguo della nostra nuova Destra made in Russia, si potesse convenire su di un minimo sindacale di civiltà. Credevo che a sinistra almeno stavolta avremmo potuto evitare il ronzio della polemica perenne, fatto di starnazzi massimalisti e risate di naso ciniche-snob. Niente da fare, almeno stando a un breve intervento di Christian Raimo comparso su «Minima & Moralia» alcuni giorni fa e intitolato A proposito della commissione Segre. Un ragionamento sul bisogno di strumenti legislativi efficaci e sulla militanza. La tesi dell’articolo è esposta con chiarezza nelle prime righe: “Abbiamo un problema, che l’idea di istituire una commissione come la commissione Segre non risolve ma amplifica”. Proprio così, per Raimo l’idea di Liliana Segre non è nemmeno inutile – come tante commissioni parlamentari – ma anzi dannosa. “Amplifica” il problema, inteso come “lo sdoganamento di massa del linguaggio razzista, fascista e sessista”. In che modo lo amplifica? Non è chiaro, ma sappiamo che per Raimo questo problema “non ha a che fare con l’odio”. Anzi, “l’odio è un sentimento alle volte deprecabile, alle volte necessario: odiare gli oppressori, odiare i nemici sociali, odiare i fascisti, per esempio, ha portato alle più importanti lotte di libertà e emancipazione della storia umana”. Io spero solo che Raimo, che di mestiere fa l’insegnante, non trasmetta quest’idea ai suoi studenti. No, caro Raimo, in ogni lotta di liberazione l’odio è un accidente. L’odio è il veleno dell’esistenza umana e non cambia natura cambiando direzione, resta una condizione patologica che danneggia sia il proprio oggetto che il proprio soggetto. Ma è evidente che una critica di questo tipo non può scalfire il punto di vista di un marxista, o di un materialista storico, come preferiva definirsi Edoardo Sanguineti. È proprio a Sanguineti che ho ripensato leggendo Raimo, e non per un improbabile confronto tra le stature intellettuali dei due, quanto per la comune rivalutazione dell’odio. Nel 2007 il poeta, candidato a sindaco di Genova in una lista a sinistra del neonato PD, suscitando più di qualche imbarazzo se ne uscì con la necessità di “restaurare l’odio di classe”. Una volta salvato l’odio, per così dire, rimane comunque il problema di questa sottocultura fascista e razzista che oltre a essere tornata socialmente accettabile, risulta incredibilmente pervasiva, almeno per gli standard cosiddetti occidentali. Su un punto Raimo ha certamente ragione: la Sinistra di sistema, nel suo raffazzonato tentativo di pacificazione nazionale iniziato negli anni Novanta, ha scriteriatamente messo da parte le insegne dell’antifascismo (lasciando così che se ne appropriasse l’area antifa, i cui esponenti sembrano talvolta affetti da una tara cognitiva che li porta a equiparare le proteste contro la TAV alla resistenza dei Curdi all’ISIS…). Quando però accenna a possibili rimedi e afferma che non ci sono “strumenti giuridici per sanzionare i comportamenti e gli atti linguistici fascisti”, Raimo si incarta come ogni intellettuale critico alle prese con la pars costruens. Non si capisce cosa intenda quando scrive che “occorre ragionare da un punto di vista della linguistica pragmatica [cioè, grossomodo, dello studio della relazione tra ciò che viene detto e l’intenzione di chi lo dice, ndr] sul fascismo e sull’antifascismo, sul razzismo e l’antirazzismo, sul sessismo e sull’antisessismo”, né quando parla di “studi scientifici di linguistica pragmatica, studi giuridici” che dovrebbero guidare il legislatore. Fino a quando l’autore non preciserà il suo pensiero, possiamo considerare questo punto un esempio di inutile word-dropping. Più interessante è invece la conclusione, perché chiarisce finalmente dove voglia andare a parare Raimo col suo articolo: “Il campo del conflitto, che alle volte comprende anche l’odio, alle volte anche la violenza, alle volte persino la guerra, non può essere lasciato ai fascisti, agli oppressori, etc”. La violenza è a volte necessaria, ci informa Raimo, ma poi torna a incartarsi, confondendo fini e mezzi, giustezza della causa e necessità della violenza: “È giusta la lotta del popolo curdo contro Erdoğan, e le manifestazioni del popolo cileno contro Piñera, o quelle degli studenti di Hong Kong?”. E subito dopo, come a mettere le mani avanti, nomina Capitini, Dolci e Alex Langer, sottolineando però come nemmeno loro predicassero “una politica aconflittuale”. “Il pacifismo non è irenismo”, prosegue Raimo, “la nonviolenza non è fare i piccoli Pilato, lasciando inalterati i sorrisi di Salvini che contengono un’aggressività permanente, ingiustificata e violentissima”. La conclusione del pezzo tocca il tema dei “decreti sicurezza” che “contengono una quantità inusitata di strumenti per legittimare la violenza di stato e la repressione del dissenso”. E siamo tornati alle questioni della militanza e dell’attivismo, che stanno molto a cuore a Raimo, il quale conclude chiedendo “a chi si definisce democratico” di abrogare suddetti decreti, “altrimenti – con tutto il luminoso valore di Liliana Segre – non c’è forza della testimonianza che tenga”. Ora, io capisco che per un intellettuale engagé in un paese di non-lettori sia necessario “uscire” periodicamente per mantenere una minima visibilità presso il suo pubblico, parlando di quanto siano brutti i tre anni di carcere per occupazione abusiva o le altre schifezze dei decreti Salvini. Mi chiedo però cosa c’entri questo con l’encomiabile iniziativa di una sopravvissuta ad Auschwitz-Birkenau che da bambina ha provato sulla sua pelle fino a dove si può spingere l’odio e a quasi novant’anni è costretta a girare sotto scorta per il solo fatto di ricordarcelo.
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