P.A.
Povertà, dare soldi non basta: il reddito di inclusione è una buona idea
Mentre il Reddito di cittadinanza resta ancora un’ipotesi con non pochi dubbi sulla sua possibile copertura (ovvero: da dove prendere i soldi / quali servizi o prestazioni pubbliche tagliare per sostenerla), i cittadini italiani in stato di povertà possono rivolgersi già oggi ai Servizi del proprio Comune di residenza e inoltrare domanda per il Reddito di Inclusione comunemente chiamato REI (per requisiti e modalità di accesso vedi qui e qui) . Il REI prevede ovviamente un contributo economico al nucleo familiare, proporzionato alla situazione reddituale e patrimoniale di partenza e, da luglio, è una misura strutturale (ovvero destinata a durare nel tempo) e universale, cioè non legata a delle specifiche categorie di beneficiari, ma solo a determinati requisiti di reddito e patrimonio.
Se si limitasse a questo, però, potremmo già scommettere sulla sua inefficacia.
Come e più di altri Paesi del Sud Europa, in Italia i cittadini ricevono infatti già molto denaro (in particolare pensioni, ma anche contributi economici da Regioni e Comuni) in confronto a quanto ricevano come servizi (sociali, educativi, assistenziali, etc.) Quello italiano è un welfare monetario e il welfare monetario si dimostra oggi particolarmente inefficace nel contrasto e prevenzione di alcuni problemi sociali, soprattutto, strano a dirsi, rispetto alla povertà (cronica o in divenire). Collegata a questa caratteristica (e al fatto che oggi la competenza sul welfare è divisa, non sempre in modo razionale, fra Stato centrale, Regioni, Comuni e loro articolazioni) è quella, ancor più limitante in termini di efficacia, della scarsa o nulla connessione tra denaro e azioni: per ricevere i soldi al cittadino si chiede di dimostrare un bisogno e dei requisiti, non viene chiamato e corresponsabilizzato a una specifica azione così come il denaro ricevuto non deve essere necessariamente utilizzato per rispondere a quello specifico bisogno. Prendo un sussidio di disoccupazione anche se non cerco lavoro. Prendo un’indennità a fronte del mio stato di non autosufficienza ma non devo per forza usare questo denaro per pagare una badante.
L’obiettivo del REI è cambiare questo approccio.
Il contributo ricevuto è infatti collegato necessariamente a: la definizione di un percorso di attività condivise tra famiglia beneficiaria e operatori sociali; la loro effettiva realizzazione e valutazione. Si assume cioè che una reale collaborazione e corresponsabilizzazione tra famiglie e operatori dei Servizi sia la premessa necessaria perché la misura REI sia davvero efficace, ovvero capace di contrastare l’impoverimento che così duramente sta colpendo il nostro Paese.
Se, dunque, è certo auspicabile si riesca, nel prossimo futuro, a garantire un graduale ampliamento del numero di beneficiari e un incremento della parte di contributo per ciascuna famiglia (quindi un maggior investimento di risorse economiche), resta comunque questa la caratteristica decisiva del REI e quella su cui si giocherà la sua efficacia. In altre parole, come evidenziato qui e come sottolinea con pregnanza un recente libro a cura di Daniela Mesini nel REI i Servizi sono al centro. Nell’attuale discussione sul welfare del futuro questa non è certo un’ipotesi particolarmente popolare. Non sono pochi coloro che sono infatti a favore di una progressiva riduzione della presenza e della centralità dell’ente pubblico dal sociale, dalla sanità, dall’educazione ed è immaginabile che nel prossimo futuro, anche attraverso il proprio voto amministrativo o politico, ai cittadini verrà chiesto se preferiscano restare soli con i propri soldi o che ci sia un qualcuno che, insieme a loro, si faccia carico del proprio percorso di emancipazione e se questo qualcuno debba ancora essere un operatore pubblico.
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