Partiti e politici

Non mantenere le promesse e dare la colpa al sistema: lo storytelling di Renzi

24 Dicembre 2014

Dieci mesi dopo il suo arrivo al potere e al termine della presidenza dell’Unione Europea,  Matteo Renzi è in stallo. Il suo storytelling ottimistico appare per quello che è: un fenomeno di allucinazione collettiva ottenuto attraverso le tecniche del marketing delle emozioni e dello storytelling politico. La nuova “narrazione” dell’Italia non fa che riprendere i vecchi tormentoni di Thatcher e Reagan: semplificare, rompere i tabù, scardinare le “serrature” senza mettere in gioco i veri principi neo-liberali. La trasgressione è giunta al capolinea. Trent’anni dopo la rivoluzione neo-liberale, ci sono ben poche “serrature” da scardinare.

Proponiamo la seconda e ultima parte dell’analisi di Christian Salmon, autore di Storytelling, scritta per Mediapart e pubblicata in esclusiva, in italiano, su Gli Stati Generali, dopo la prima puntata dal titolo: “Il Rottamatore non c’è più: oggi Renzi è un maratoneta del potere”)

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“Io non sono un politologo, io mi occupo di narrazione”, affermava all’indomani delle elezioni regionali in Emilia Romagna lo scrittore Roberto Bui, membro del collettivo Wu Ming, “non mi posso esprimere sulla composizione della sinistra né sulla crisi che attraversano i partiti politici. Ciò di cui sono sicuro, però, è che lo storytelling renziano è in crisi, la retorica della novità non è più sufficiente, i conflitti sociali hanno portato al fallimento il suo modello di narrazione”.

Solo un anno fa, nel dicembre 2013, Matteo Renzi stravinceva le elezioni primarie del Partito Democratico. Un trionfo che sapeva quasi di rivoluzione civile. Lui, che si faceva chiamare il rottamatore, prometteva di rottamare la vecchia classe dirigente e d’imporre un nuovo corso narrativo all’Italia. Non appena eletto segretario nazionale del Partito Democratico grazie alle primarie vinte a man bassa, Renzi ha spinto alle dimissioni Enrico Letta, proveniente dai ranghi del suo stesso partito, ed è diventato il più giovane Presidente del Consiglio della storia d’Italia.

 Dieci mesi dopo, la delusione è diffusa tra i suoi sostenitori. Gli scioperi del 14 novembre e del 12 dicembre hanno dimostrato i limiti dello storytelling renziano. Il brillante storyteller che parlava di cambiare la narrazione dell’Italia appare ormai un vecchio cantautore anni Sessanta che ripete, trent’anni dopo Ronald Reagan, che lo Stato non è la soluzione, ma il problema (slogan della Leopolda 2014). Renzi ha distribuito 80 euro al mese agli italiani meno abbienti ma il contenuto delle sue riforme soddisfa a malapena le esigenze di Bruxelles e di Berlino: riforma del lavoro, privatizzazioni, deregolamentazione, semplificazione.

Le elezioni regionali del 23 novembre in Calabria e in Emilia Romagna sono state segnate da un tasso di astensione molto elevato (63%): uno “sciopero generale del voto”, secondo il politologo Roberto Balzani. La disoccupazione continua a crescere, l’Italia sprofonda nella recessione e il 5 dicembre Standard & Poor’s ha retrocesso il rating dell’Italia da BBB a BBB-, il livello più basso previsto per un Paese sviluppato. Sulla base dei “progressi” della riforma del lavoro, l’agenzia teme che quest’ultima resti impanata in Parlamento, mentre la disoccupazione ha raggiunto il record in ottobre (13,2%, di cui 44% di disoccupazione giovanile). S&P esprime i suoi dubbi sulla capacità di Matteo Renzi di riformare l’Italia. “Se la riforma del lavoro non darà risultati in tempi utili e se l’Italia continua ad essere al traino dell’Europa (…), il castello di carte (di Renzi) potrebbe benissimo crollare”, prevede La Repubblica.

 Se si vuole comprendere che genere di uomo politico sia Matteo Renzi, è necessario consultare i fondamentali del neo-liberismo anziché le biografie scintillanti di dettagli e di aneddoti che lo vedono protagonista. Secondo Richard Sennett, la cultura del nuovo capitalismo ha bisogno “di un nuovo io, concentrato sul breve termine, focalizzato sul potenziale abbandonando l’esperienza passata” -ciò che il sociologo Zygmunt Bauman teorizzerà nel 2000 con il concetto di società liquida.

La virtù non può “più risiedere nel rispetto delle regole – che in ogni caso sono rare e contraddittorie -, ma nella flessibilità: l’attitudine a cambiare tattica rapidamente, a modificare lo stile, ad abbandonare senza rimpianti impegni e lealtà, ad approfittare delle occasioni secondo una valutazione tutta individuale delle proprie ambizioni.” Proprio il vecchio rimprovero che si è soliti fare ai politici: l’opportunismo, il cinismo, il cambiamento di impegni presi e di convinzioni. Un rimprovero che calza a pennello per Matteo Renzi, i cui cambi di rotta e le smentite sono leggendari.

Tuttavia, non bisogna confondere l’obiettivo con la modalità. E la metafora del corridore di fondo utilizzata da Renzi (analizzata nell’articolo precedente) ci rivela una verità del politico contemporaneo: lo si può definire un maratoneta dell’opportunismo? Si può rimproverare a Renzi di aver tradito il passato e di aver fatto marcia indietro negli impegni presi? Certo che no, non avrebbe senso. Un maratoneta deve orientare il suo sforzo alla durata, adattarsi agli ostacoli lungo il cammino, prevedere le reazioni di sfiducia che possono sorprenderlo durante i suoi sforzi. Questo non è opportunismo. E’ ostinazione, è accanimento: egli insiste, persevera e deve conservare il suo potenziale per poter continuare a correre.

La maratona è resistenza. Se la metafora esprime una verità di conquista e di esercizio del potere, ciò avviene perché l’uomo politico è egli stesso sottoposto ad una prova di resistenza. Una resistenza singolare e quasi comica: non deve mai smettere di “promettere” e deve far durare la promessa di un cambiamento rimandando all’infinito il momento di mantenerla. Come giustificare il fatto che le promesse non sono mantenute senza però perdere la fiducia agli occhi degli elettori? Risposta: rimandando senza sosta il momento in cui queste promesse saranno realizzate, rimandando senza sosta il momento della verità.

E’ esattamente ciò che fa François Hollande promettendo di invertire la tendenza della disoccupazione. Si potrebbe pensare che queste promesse si prestino ad essere smentite dai dati e ad essere rivoltate contro lo stesso Presidente. Tuttavia, ciò vorrebbe dire non comprendere la logica degli annunci anticipati, che permettono di rimandare di mese in mese l’attesa di un miglioramento sul fronte della disoccupazione, acconsentendo alle rivendicazioni di MEDEF (Movimento delle Imprese di Francia) sul patto di responsabilità.

Logica di ritardare e tattica di temporeggiare permettono di guadagnare tempo nella corsa, lenta nella distanza tra promesse e fatti concreti. Permettono di innalzare nuovi ostacoli ed escogitare nuove misure per superarli. Tutto, pur di rimanere lì a promettere. Ormai la credibilità di un politico è misurata su due scale di valori: la fiducia dell’opinione pubblica monitorata dai sondaggi e il rispetto degli impegni presi di fronte alle agenzie di rating. Come soddisfare le agenzie di valutazione che determinano il costo del debito senza deludere le attese degli elettori? E’ quindi una maratona singolare quella che corre il politico neo-liberale: la maratona delle promesse in sospeso. Deve promettere il cambiamento, pur sapendo che non può cambiare grandi cose a causa dei mercati finanziari, della globalizzazione, dei vincoli europei. Il politico deve essere e restare una promessa se vuole conservare il potere, ma allo stesso tempo l’esercizio del potere lo condanna a non poter mantenere le sue promesse.

“Come restare una promessa: ecco il dilemma del politico neo-liberale”, analizza il filosofo Michel Feher. “La retorica è sempre la stessa: si sforza di raccontare ai cittadini quanto meraviglioso sia il loro Paese, quante risorse e possibilità immense abbia, ma – purtroppo – ci sono dei blocchi, delle serrature. E’ sufficiente scardinarle per liberare la gioventù, l’energia, l’innovazione, la fiducia. E’ la retorica della “serratura” che lo giustifica. Sarkozy aveva i suoi tabù. Renzi e Valls hanno le loro prigionie.

Queste serrature non sono altro che i resti dello Stato Assistenziale. La difficoltà sta nel fatto che dal 1979 e dalla rivoluzione neo-liberale di Tatcher e Reagan il grosso del lavoro è già stato fatto. Bisogna quindi trovare altre serrature da scardinare. Infrangere la regola, superare l’omertà, far saltare i lucchetti senza rimettere in discussione le norme imposte dalle agenzie di rating e dalla Commissione Europea. Non è un caso che l’ultimo progetto di legge di Renzi si chiami Sblocca Italia”.

 Per conservare la credibilità il più a lungo possibile tra due elezioni –o per non perderla del tutto-, bisogna quindi ritardare il più a lungo possibile la realizzazione delle promesse, rimandare senza sosta i fatti concreti, moltiplicando gli ostacoli e le serrature che sono funzionali a giustificare la non-realizzazione delle promesse. Il modello non è tanto negli episodi delle serie TV, quanto nel videogioco strutturato nei suoi vari suoi livelli. Ad ogni livello, il punteggio consiste nella credibilità guadagnata e nella sfiducia subita, che riproducono nel videogioco il punteggio della vita reale.

L’attore politico attraversa una serie di prove nel corso delle quali deve affrontare degli ostacoli, scardinare i lucchetti delle serrature se perde dei punti -nella realtà e nei sondaggi. Dispone di un credito, di fiducia cioè di un capitale iniziale di simpatia accumulato al momento della sua elezione, e che diminuisce mentre esercita il potere, ma che non deve mai esaurire, se vuole restare dentro il gioco. L’originalità di questo gioco risiede nel fatto che il giocatore, l’attore politico, tenuto ad  inventare gli ostacoli lungo il suo cammino, è lui stesso a sbloccare le serrature che deve aprire per mantenere le promesse. Un gioco in cui più perde, più guadagna di non dover mantenere le sue promesse, riuscendo a ritardarle mentre crea sul suo cammino nuovi ostacoli, nuove serrature.

Dopo la crisi economica del 2008, tutti i Governi hanno subito la stessa perdita di credibilità. Sono costretti a navigare a vista, a sforzarsi di controllare, giorno per giorno, un’opinione pubblica nervosa sotto gli occhi vigili delle agenzie di rating. Per catturare l’attenzione, raccontare una buona storia non basta. Bisogna creare e mantenere una forma di suspense, di attesa, suscitare un’emozione, controllare le immagini, inventare la pedagogia del cambiamento, realizzare in breve una performance complessa e di difficile riuscita sul lungo periodo. Qual è il problema di fondo di questa performance? Conservare la credibilità o almeno mantenere la sfiducia entro limiti accettabili. Chi decide? Le agenzie di rating da una parte, i sondaggi dell’opinione pubblica dall’altra, le elezioni in ultima battuta. La valutazione delle agenzie rappresenta l’anticipazione di una promessa di rimborso (solvibilità). I sondaggi sono anch’essi l’anticipazione di una promessa, la promessa di un cambiamento.

Renzi aveva promesso di cambiare l’Italia in cento giorni al ritmo di una riforma al mese. Ormai rimanda la sua azione ai prossimi mille giorni, quando non arriva ad evocare l’orizzonte dei dieci anni a venire. Se lo storytelling della conquista poneva davanti a tutto la velocità di esecuzione (si parlava di velocismo renziano, ora lo storytelling del Governo poggia sulla strategia di ritardare: #passodopopasso è diventato l’hashtag del momento e nome del sito del Governo che illustra l’agenda delle riforme, come fece anche Matignon). La logica è, alla prova dei fatti, quella del rallentamento. “Quando gli si avanzano delle obiezioni sull’Italicum, il progetto di riforma elettorale”, analizza David Allegranti, corrispondente del Corriere della Sera a Firenze e che ha seguito l’ascesa di Renzi fin dal principio, “lui è già altrove, lanciato sul Jobs Act, poi tira fuori dalla tasca la riforma del Senato…”, e così via.

“Renzi non solo non rispetta le promesse, ma anzi aggiunge senza sosta nuove promesse a quelle già fatte”, spiega Pippo Civati. “Non crede ad una svolta morale per il Paese, non cerca di promuovere un vero cambiamento politico o culturale. La sua visione è a corto raggio, i suoi impegni non sono mai vincolanti (non innalza grattacieli); non scrive mai (la tradizione orale permette cambiamenti rapidi e improvvisi). E’ percepito come un leader trasversale, delle volte persino trasformista, che si muove al di là dei confini di destra e di sinistra. Il suo personaggio ha già subito una certa usura, ma è abilissimo e sa sorprendere, spostare i problemi altrove, cambiare scenario”.

Di annuncio in un annuncio e di trasgressione in trasgressione, Matteo Renzi ha scalato, in dieci anni, tutte le tappe che separavano un giovane politico locale in Toscana dalla Presidenza del Consiglio. “Dopo qualche mese alla guida del governo”, conclude Davide Vecchi, autore de L’intoccabile Matteo Renzi. La vera storia, “Renzi sembra non sapere più dove vuole andare. Un marinaio smarrito che ha perduto la sua rotta”.

Lost in trasgression.

Scatola Nera.

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Per realizzare questa inchiesta, ho avuto lunghi scambi di idee con Andrea Marcolongo, una ex studentessa della Scuola Holden, storyteller specializzata in comunicazione politica, che ha collaborato per più di un anno con lo staff di Matteo Renzi.

Ho consultato poi: lo storico dellarte Tommaso Montanari, professore dellUniversità di Napoli, autore del libro Le pietre e il Popolo.

Pippo Civati, filosofo e deputato del Partito Democratico, allorigine della prima Leopolda e che ha  in seguito rotto con Matteo Renzi.

David Allegranti, giornalista del Corriere Fiorentino, edizione locale del Corriere della Sera, e autore di due libri su Matteo Renzi: The boy. Matteo Renzi e il cambiamento dell’Italia (Marsilio, 2014) e Matteo Renzi. Il rottamatore del PD (Vallecchi, 2011).

Ho poi avuto una lunga conversazione con il filosofo Michael Feher.

 Molti giornalisti e scrittori italiani non hanno voluto essere citati in questo articolo.

(Seconda e ultima parte dell’inchiesta di Christian Salmon su Matteo Renzi, pubblicata su Mediapart e, in esclusiva italiana, su Gli Stati Generali)

 

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