Legislazione

Voto a 16 anni? Sì, grazie

21 Ottobre 2019

Nelle scorse settimane Enrico Letta ha proposto di abbassare il voto dell’elettorato attivo nel nostro Paese da 18 a 16 anni (ricordiamo che l’elettorato attivo è composto da coloro che votano; quello passivo da coloro che si candidano e possono essere votati). Enrico Letta ad appena 32 anni fu il più giovane ministro italiano, per poi essere nominato a 47 anni Primo Ministro del 62° Governo della Repubblica, e attualmente è direttore  della Scuola di Affari Internazionali alla prestigiosa École Science Po di Parigi, dove si formano le classi dirigenti della politica francese ed europea.

Questo sintetica nota biografica serve, se ce ne fosse bisogno, a testimoniare la qualità della persona e lo spessore della sua preparazione politica, costruita con una qualificata esperienza personale e poi con l’analisi scientifica.  Ma serve soprattutto da sostegno alla proposta del voto a 16 anni, proposta che di sostegno sembra avere particolare bisogno.

Se lo si considera in via puramente logica, infatti, il voto a 16 anni dovrebbe essere una conseguenza naturale della legislazione dei maggiori Paesi membri delle Nazioni Unite. In essi, infatti, all’età di 16 anni decadono gli obblighi scolastici e si è pertanto nella condizione giuridica di poter lavorare e pagare le tasse. Avere la possibilità di decidere con il voto come le tasse versate debbano essere impiegate dovrebbe dunque essere un fondamento acquisito della rappresentatività democratica (o, se si preferisce, semplice buon senso).

Le cose tuttavia non stanno così. Dei ventotto membri dell’Unione Europea solo tre Paesi (Austria, Grecia e Malta) concedono il voto ai sedicenni, e fuori dall’Unione le cose vanno ancora peggio. Solo in America Latina il voto a 16 anni ha una qualche diffusione, coinvolgendo cinque Paesi fra i quali Argentina e Brasile. Negli stati sia dell’Africa mediterranea sia dell’Africa Sub-sahariana il voto a 16 anni è del tutto sconosciuto, e lo stesso nella grande Asia, con le modeste eccezioni di Indonesia, Timor Est e Nord Corea. In sostanza nei 193 Paesi attualmente membri dell’Onu si vota a 16 anni solo in 11, coprendo 600 milioni di individui sui 7.7 miliardi dell’attuale popolazione mondiale,  pari ad appena l’8%. Singolari concessioni ai sedicenni che emergono in qualche ordinamento, anche amministrativo, non mutano in alcun modo il quadro: in Ungheria, regola che non passerebbe il vaglio della nostra Corte Costituzionale, si vota a 16 anni se sposati (ma, a testimoniare la bizzarria della norma, se si ha un figlio senza essere coniugati si resta a bocca, anzi a scheda asciutta, come se avere figli fuori dal matrimonio continuasse nel 2019 ad essere meritevole di sanzione!).

Avrà dunque ragione Enrico Letta o il 92% della popolazione mondiale intesa come la collezione dei loro rappresentanti che fanno le leggi e mantengono in modo rigoroso e coerente il limite dei 18 anni? Con il dovuto rispetto per la dignità statistica della (schiacciante) maggioranza, noi crediamo che abbia ragione Enrico Letta, e che il diffuso mantenimento di un limite antico originato alla metà del Novecento rappresenti un fenomeno di vischiosità culturale, prima ancora che politica, da superare quanto prima.

Le ragioni logiche sono molto semplici. In un mondo pur enormemente diseguale, gli investimenti in education sono cresciuti negli ultimi cinque decenni a ritmo accelerato e configurano una situazione ormai molto diversa da quella del secolo scorso. Pur riconoscendo che nel nostro Paese un’azione mirata deve essere intrapresa per aumentare la coscienza civica e politica dei giovani – e qui non possiamo non pensare all’educazione civica nelle scuole – la diffusa alfabetizzazione, la diffusa scolarizzazione, la drastica riduzione e il quasi azzeramento delle differenze di genere nell’Istruzione restituiscono un quadro nel quale ai  sedici anni corrispondono pacchetti di informazione e cifre di consapevolezza che dovrebbero valere in modo pressoché automatico il diritto di voto.

Ma sono le ragioni politiche  a indicare nel voto ai sedicenni una scelta urgente e necessaria.

Nelle dinamiche demografiche del mondo sviluppato, con l’invecchiamento progressivo della popolazione e il peso crescente della classi più avanzate di età, i giovani sono fatalmente destinati a pesare meno nei corpi elettorali e rischiano perciò di perdere ulteriore peso politico. Eppure – e sconcerta il dover ripetere questa banalità puramente anagrafica – il futuro non lo costruiranno gli anziani ma i giovani. Aumentare il peso della componente giovane dell’elettorato, dunque, non ha soltanto lo scopo particolare di far crescere il numero di coloro che sosterranno le (oggi esilissime) politiche giovanili, ma quello ben più strategico di rendere più solida e consistente la piattaforma sociologica che nell’arco di pochi anni dovrà generare la nuova classe dirigente.

E siamo infine nel bel mezzo di una transizione tecnologica potente, in cui la natività digitale  rappresenta un discrimine sempre più rilevante per comprendere, prima ancora che per utilizzare, le applicazioni di queste tecnologie all’economia, alla politica e a ogni declinazione dei modi di vita individuali e collettivi. Si tratta di una transizione che, volenti o nolenti, già adesso ci sta proiettando con forza nel futuro, dandoci grandi opportunità e considerevoli rischi da affrontare con freschezza di idee e visione chiara e originale. Conferire maggior peso politico alle fasce giovanili delle nostre società, dare ragione a Enrico Letta e suggerire al 92% del Mondo che sta peccando di ignavia e di eccesso di prudenza, sarebbe un segnale di intelligenza e di speranza.

 

Diletta Dini

Membro della Redazione di Yezers

 

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