Legislazione

Utero in affitto. Dalla “rimozione” alla discussione consapevole

4 Marzo 2016

Sull’utero in affitto – o meglio pratica della gestazione per altri (GPA) – si sono accesi i riflettori del dibattito pubblico italiano solo di recente, in occasione dell’accesa discussione del ddl Cirinnà. Fra le tante certezze sbandierate da politici e opinionisti l’opinione forse più equilibrata è stata espressa – a mio parere – da Michela Murgia che ha giustamente sottolineato come un tema di così difficile trattazione non possa essere risolto a suon di applausi in bianco o nero.

A fronte di quella che ritengo una sostanziale impossibilità di definire cosa sia “giusto” o “sbagliato” in questi frangenti, è chiaro che una discussione sul tema, seria e articolata, sia necessaria nonché urgente in ambito politico. Una discussione laica e attenta a non far prevalere, da una parte e dall’altra, le ragioni “a priori”.

Dobbiamo cercare di partire, come sempre, dai dati e i dati dicono che in Italia la pratica della GPA è vietata per legge.

Partendo tuttavia dal presupposto che viviamo in un contesto globale e che qualsiasi normativa deve considerare anche quanto accade in altri paesi, in particolare quelli della Comunità Europea per quanto ci riguarda, fanno sorridere alcune proposte di sanzione per le persone che ricorrono a tale pratica all’estero. A prescindere dall’inapplicabilità di queste soluzioni (che cosa potrebbe succedere a una famiglia non in grado di pagare la “multa” prevista per chi ricorre alla GPA all’estero?), abbiamo già avuto modo di vedere come, ad esempio con la legge che vietava fino a poco tempo fa il ricorso alla fecondazione eterologa nel nostro paese, in alcuni frangenti il detto “fatta la legge trovato l’inganno” sia particolarmente azzeccato. Non è infatti possibile controllare i corpi delle persone e non è possibile affrontare il dibattito in senso astratto, perché chi va all’estero e torna a casa con un figlio biologicamente “suo”, grazie al ricorso ad una pratica lecita nel paese ove è stata realizzata non ha, in senso stretto e puramente teorico, violato nessuna norma o leso alcun soggetto.

Il problema può dunque essere affrontato in senso puramente teorico, partendo da domande legate alla “liceità” o “bontà” della GPA in quanto tale (“Si tratta di un atto egoistico da parte degli aspiranti genitori?”, “Che ruolo attribuiamo alla figura della madre in quanto donatrice di vita?”, “Che cosa definisce la maternità o paternità di una persona?”) oppure “limitarci”ad affrontare gli aspetti pratici e “politici” della questione.

Avendo l’ambizione di voler riflettere su questi temi con sguardo politico, il primo passo da fare credo sia quello di diffondere una corretta informazione. Sono 21 i paesi in cui la GPA è consentita e normata, Belgio, Cipro, Danimarca, Grecia, Paesi Bassi, Regno Unito, Ucraina e Ungheria per citare quelli a noi geograficamente più prossimi. La normativa varia, anche in modo sensibile, da stato a stato e in alcuni casi, per poter ricorrere alla GPA è necessario che almeno uno dei genitori “in pectore” sia residente nel paese. Rimando alla sintesi comparsa di recente su L’Internazionale per uno sguardo d’insieme e mi limito, per il momento, ad cercare di capire se sia possibile (e questa vuole essere una base di partenza non un punto di arrivo in termini di riflessione) arrivare a normare la GPA anche in Italia senza far riferimento a contesti etico-culturali di stretto riferimento.

La GPA, ricorrendo ad estrema sintesi, è proibita in alcuni paesi, concessa, ma senza ricorso a contrattualistica pre-natale e compenso, in altri, concessa e normata da contratti di carattere simil-commerciale in altri ancora. Un modello che, a mio parere, potrebbe costituire una base interessante per il dibattito, potrebbe essere quello della Gran Bretagna.

Cosa prevede la legge di questo paese? La surrogacy non è vietata, ma non è consentita transazione economica rispetto alla procedura. Allo stesso tempo è vietato realizzare pubblicità di carattere commerciale sull’argomento ed è vietata qualsiasi transazione economica per mediazioni terze.

Non sono previsti accordi contrattuali prima della nascita del bambino e la madre “donatrice” viene considerata, a livello legale, madre a tutti gli effetti alla nascita. Se coniugata o coinvolta in un’unione civile il coniuge è considerato padre legale a meno che non rifiuti il coinvolgimento nella pratica. Dal momento della nascita alla richiesta di riconoscimento e affido da parte dei genitori “in pectore” devono trascorrere non meno di 6 settimane e non più di 6 mesi. La coppia dev’essere regolarmente sposata, unita civilmente o in grado di dimostrare una strutturata convivenza. Almeno uno dei due genitori dev’essere residente in Gran Bretagna.

Il presupposto di questa normativa è che, pur dovendo in qualche modo offrire dei punti di riferimento per chi ricorre alla pratica, assume che si sta discutendo di vite e di un investimento di carattere emotivo, esistenziale e psicofisico che nulla ha a che vedere con un investimento di carattere commerciale.

La madre “donatrice” viene tutelata nella sua libertà di scelta: non è vincolata all’impianto dell’embrione, né a portare o meno a termine la gravidanza. Il rischio che si assume nell’ “ospitare” la gravidanza è riconosciuto dalla completa disponibilità, sempre secondo le leggi vigenti, della sua persona.

Qualcuno potrebbe obiettare che, in questo modo, gli aspiranti genitori non vengono sufficientemente tutelati. Il loro “patrimonio genetico”, affidato alla gestante, è – per l’appunto – affidato per nove mesi e (almeno) sei settimane. La madre donatrice potrebbe decidere di tenere il bambino: si tratta di un’assunzione di rischio che, per certi versi, rispecchia il rischio assunto dalla gestante.

Facciamo un ulteriore esempio. Negli Stati Uniti è possibile avviare la procedura di richiesta di adozione prima della nascita nel caso in cui una donna decida di portare avanti una gravidanza, senza però voler farsi carico della cura del nascituro. Il bambino può essere dunque affidato alla famiglia adottiva fin dal momento in cui esce dall’ospedale, senza passaggi in struttura. La procedura prevede una serie di incontri fra madre biologica e famiglia adottante, modalità precise di contatto e accordi che riguardano anche il momento del parto. La famiglia adottiva può, in sintesi, accompagnare la madre biologica nel corso della gravidanza e iniziare ad “investire” emotivamente sul nascituro come farebbe qualsiasi famiglia in attesa. La madre biologica però è tutelata e, nonostante procedure e accordi pre-parto, può decidere di tenere il bambino al momento della nascita. Perché – in fondo – nessuno può sapere che cosa accade al momento del parto. Così come nessuno può sapere se una famiglia adottiva se la sentirà di portare avanti fino in fondo l’iter di adozione.

Osservata da questo punto di vista la normativa inglese sulla GPA presenta, pur nell’imperfezione in cui qualsiasi norma di questo genere può incappare, molti punti di forza.

Il desiderio di genitorialità delle coppie richiedenti la GPA viene accolto, ma a patto che si assumano gli stessi rischi che si assumerebbero con una maternità “tradizionale” o con un’adozione.

La libertà della madre donatrice viene riconfermata dalle tutele che, per tutti i nove mesi di gestazione, le danno completa disponibilità di sé stessa. Gli eventuali “passaggi” economici riguardano la procedura e, nel caso in cui la donatrice decida di tenere il bambino, non possono essere poste in atto rivalse di carattere economico (per quanto ovviamente non siano esclusi a priori possibili contenziosi di affidamento, il principio resta quello che la madre “di nascita” viene considerata legalmente madre del bambino).

L’argomento è complesso e questo rappresenta solo uno dei tanti possibili esempi a cui fare riferimento, ma in un quadro di completa deregolamentazione potrebbe essere un valido sostegno per un dibattito che, allo stato attuale, sembra polarizzato fra la visione di egoistiche coppie di potenziali genitori pronti a sfruttare il corpo di una donna indigente per realizzare un loro desiderio e la visione di chi attribuisce un valore assoluto al ruolo e alla figura materna come dispensatrice di vita. Come in molti casi, almeno dal punto di vista politico, la verità potrebbe essere figlia del dubbio e del ragionamento aperto che da questo dovrebbe scaturire.

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