Legislazione
Se Sofri è un maestro per la sinistra, Renzi può fare le riforme con Berlusconi
Sono tra quei tanti (o pochi chissà) che ne hanno fatto una questione di stile, sin da quell’ascesa berlusconiana al Nazareno, condensata nell’immagine plastica del fu Cavaliere che sale la scalinata del “nemico”. Da quel giorno, con l’ufficialità del tormento, il mondo della sinistra si è confrontato con una “nuova” disinvoltura, la disinvoltura renziana, resa ancora più acuta, persino acuminata, da una condanna – questa sì definitiva – che un regolare tribunale della Repubblica aveva inflitto al suo interlocutore privilegiato. Una condanna di una certa gravità per frode fiscale, cose che in Americano ti dimenticano per anni in una 5×5, mentre il nostro balla il valzer una volta alla settimana con le vecchiette di Cesano Boscone. Renzi fece della ragion di Stato, adattata modernamente ai suoi modelli di vita, la ragion stessa di quel tentativo di intesa, attribuendogli un fine ultimo alto e nobile come le riforme istituzionale di un Paese che non le faceva da una vita. A quello storico incontro del Nazareno, con relativo patto siglato epperò mai mostrato nè descritto pubblicamente nelle sue pieghe più delicate, ne seguirono altri persino più alti e istituzionali, come il ricevere un condannato in via definitiva, con tanto di onori, nelle stanze più appartenenti a tutti i cittadini come sono quelle della presidenza del Consiglio, cioè Palazzo Chigi. Onestamente, una scena che la Repubblica forse non avrà il piacere di rivedere in futuro.
Questo tormentato dislivello, tra un fine alto e nobile come le riforme e lo strumento usato, così spiccio, per molti amorale e comunque risolutivo, ha prodotto le conseguenze che era lecito e persino auspicabile immaginare, come una rivolta parziale eppure significativa di quella parte del Partito Democratico che aveva sempre identificato il Nostro come il Male Assoluto, producendogli con tutta probabilità l’allungamento della sua esistenza politica più di quanto le pur riconosciute capacità di Berlusconi potessero far supporre, e comunque un mantenimento in vita di un certo decoro. Questo, Renzi sapeva benissimo, e calcolandone profitti e perdite ha deciso comunque di procedere.
È proprio vero che le azioni reiterate, che una volta avevi considerato scandalose, sulla lunga distanza ti abituano al dolore, per cui ogni passaggio a Palazzo Chigi di un frodatore fiscale a colloquio con il presidente del Consiglio sarà sentimentalmente vissuto come una pagina discretamente oscena, ma comunque ingiallita dal tempo che scorre. Ognuno la vivrà diversamente. Per quel che mi riguarda, un simile intreccio di una certa complessità mi ha fatto venire in mente un altro rapporto a due in cui misurare le sensibilità, valutare i tormenti e le opportunità, e alla fine tirare il proprio personalissimo bilancio. Ed è il rapporto che ha legato un giornale di sinistra come Repubblica, molto caro al mondo della sinistra e non solo, a uno dei suoi editorialisti più accreditati, Adriano Sofri, che in termini giudiziari ha sempre avuto sulle spalle un fardello ben più oneroso di quello del Cavaliere, vale a dire una condanna in via definitiva come mandante dell’omicidio del commissario Calabresi.
Mi capita di pensarlo un attimo prima di infilarmi nella lettura di un suo reportage, di un suo editoriale, di una sua fatica che molto spesso vale davvero la pena di leggere. E allora mi chiedo se in fondo non ci sia lo stesso avvitamento in queste due storie così diverse, e cioè considerare il fine ultimo – ora le riforme per il Paese, ora il racconto profondo di una persona di grande cultura – addirittura più importante della «questione morale». Immagino ci avranno ragionato molto, ora Matteo Renzi, ora il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, giungendo forse alla stessa conclusione. Eppure non è sembrato che questo secondo scenario, il rapporto di un colpevole definitivo come Adriano Sofri con il giornale che appartiene ai suoi lettori, abbia prodotto nella gente di sinistra lo stesso tormento, la stessa insopportabilità, che essa mostra per l’altro rapporto, quello che lega in maniera che pare indissolubile Renzi al condannato definitivo Berlusconi.
E se è possibile identificare una differenza, una differenza evidentemente significativa, non è tanto che Repubblica è un luogo privato e dunque decide autonomamente cosa mettere in pagina – non si dice sempre che sono i lettori i veri azionisti del giornale? – quanto, in realtà, la radice che tiene in vita questo rapporto, che è decisamente culturale e sulla cultura fonda il patto istitutivo. Dunque più sopportabile, più digeribile, più accogliente per un lettore di sinistra che di cultura generalmente si pasce. Ma forse anche sottilmente ipocrita?
È per questo che il fine effettivamente giustifica i mezzi. Sia per Renzi, sia per Repubblica.
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