Legislazione

Referendum, non siamo allo stadio, evitiamo il voto di pancia

1 Ottobre 2016

E’ stato interessante, di più, per chi ha avuto la pazienza di ascoltare e soppesare i diversi punti di vista, a tratti avvincente il confronto svoltosi ieri sera su La7 tra il presidente del Consiglio dei ministri Matteo Renzi e il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky, già presidente della Consulta. Tema il referendum del prossimo 4 dicembre, quando saremo chiamati a votare sulla riforma elettorale e della Costituzione. Enrico Mentana ha moderato il dibattito con abilità, lasciando molto spazio ai duellanti, permettendo che lo scontro potesse manifestarsi in tutti i suoi aspetti, nelle argomentazioni, ma anche nelle personalità, nel tono di voce, nelle espressioni del volto. Renzi, con il suo abituale piglio aggressivo e muscolare, sosteneva, va da sè, le ragioni del sì, Zagrebelsky, con modi più grintosi e affilati di quelli che si attribuirebbero a un professore di diritto costituzionale, quelle del no.

Entrando nel merito delle questioni, ci sembra che molte delle obiezioni del professore siano state piuttosto deboli. Non è sufficiente dire che nel loro insieme la riforma della Costituzione e della legge elettorale possono trasformare una democrazia in un’oligarchia, se poi non si riesce a spiegare bene perchè. Però, almeno una tra le considerazioni di Zagrebelsky ha forza sostanziale e merita una riflessione attenta. Renzi evidenziava come l’abolizione del bicameralismo perfetto e il premio di maggioranza alla lista capace di ottenere il 40% dei voti o, se questo non avviene, di prevalere nel ballottaggio, renderà più rapidi i processi di formazione delle leggi e farà sì che la sera della elezioni si sappia il nome del vincitore e, quindi, del presidente del Consiglio in pectore, evitando l’alternanza cronica dei governi e dei ministeri che ha segnato tanta parte della storia italiana. E del resto, ha proseguito Renzi, ci sono democrazie, come ad esempio la Francia, in cui un partito può governare anche senza avere la maggioranza assoluta dei voti. Il professore ha obiettato che il nostro sistema politico è complesso e che se in passato ha patito lentezze e problemi di scarsa o difficile governabilità, questo non è accaduto per colpa delle regole, ma a causa delle articolazioni del contesto, in virtù della sua realtà composita. E sempre Zagrebelsky ha sottolineato che le complessità non si annullano, nè si semplificano con le leggi, e che anzi se le norme le negano e le irrigidiscono, poi le complessità esplodono in tutte le loro contraddizioni. E, ancora, il professore ha detto che le complessità vanno governate e che durante la Prima Repubblica, al di là delle apparenze, il nostro sistema politico ha goduto di notevole continuità e di stabilità sostanziale. Vero. Ma, se come lo stesso Zagrebelsky ha affermato, le leggi vanno valutate nel contesto in cui si inseriscono, è anche vero che oggi la situazione politica ed economica italiana, e quella internazionale in parallelo, è molto diversa rispetto a quella di alcuni decenni fa. L’epoca del pentapartito, giusto per intenderci, è finita e non tornerà più. Così come, probabilmente oggi risulterebbe arduo, se non impossibile, riproporre un sistema elettorale proporzionale puro.

Inoltre, dopo i referendum del 1993, promossi da Mario Segni, e le elezioni del 1994, in cui si è votato con il Mattarellum, una legge essenzialmente maggioritaria e firmata da Sergio Mattarella, l’attuale Capo dello Stato, nel nostro sistema elettorale si è manifestata una tendenza maggioritaria. Tendenza che la discesa in campo di Silvio Berlusconi ha contribuito a polarizzare e a trasferire anche nel contesto politico. E questo stato delle cose non è cambiato nemmeno con la riforma del dicembre del 2005, il cosiddetto Porcellum, in cui un sistema proporzionale è abbinato al premio di maggioranza, su base nazionale alla Camera e su base regionale, secondo una logica aberrante, al Senato. Accanto a questo, va riconosciuto, come testimonia la storia degli ultimi 22 anni, che le complessità, le differenze e le divisioni interne al nostro sistema politico restano vive e che l’Italia è un paese molto diverso rispetto agli Stati Uniti o all’Inghilterra, dove una logica bipolare funziona piuttosto naturalmente.

Su questi temi conviene riflettere prima di votare, leggendo, studiando, cercando di capire le cose. Consapevoli che, al netto di grandi storture formali o sostanziali, il diritto è una scienza empirica, dove giocano molti fattori, come lo spirito del tempo, l’opinione della maggioranza, o di una parte significativa dei votanti, l’esigenza di regolare una realtà in continua mutazione, e anche l’opinione dei singoli, di alcune persone, ovvero dei politici, dei magistrati, e l’applicazione concreta, l’interpretazione pratica. Inevitabilmente, per quanto convenga interrogarsi bene prima di votare una norma nuova, l’impatto reale di una legge, i suoi effetti sulle cose si vedono nel tempo, dopo la sua entrata in vigore.

Probabilmente, la riforma del Senato avrebbe potuto essere definita meglio, illustrando con più precisione modalità di elezione e tempi e modi in cui i senatori part-time (sindaci e consiglieri regionali) saranno chiamati a svolgere il loro compito. E non va trascurata la critica di Zagrebelsky al fatto che prevedere dal settimo scrutinio in poi una maggioranza dei tre quinti dei votanti, e non dei componenti del Parlamento, per l’elezione del presidente della Repubblica possa ledere le prerogative della minoranza e permettere alla maggioranza di imporre il suo presidente. E tuttavia questo potrebbe essere un vulnus più tecnico che sostanziale: è difficile ipotizzare, come ha detto Renzi, che la minoranza rinunci a dire la sua in un’elezione così importante.

In sostanza, la riforma che andremo a votare il 4 dicembre punta al superamento del bicameralismo paritario e prevede un meccanismo che assegna la maggioranza dei seggi alla Camera al partito che otterrà almeno il 40% dei voti al primo turno elettorale o che prevarrà dopo il ballottaggio tra le prime due liste. E’ difficile provare che questa riforma, di per sè, possa rendere anti-democratico e oligarchico, più di quanto non sia già, il nostro sistema politico. E’ difficile anche per un grande giurista. Le garanzie previste dalla Carta Costituzionale restano tutte e nella sostanza le norme su cui siamo chiamati a votare non sono molto dissimili da quelle in vigore in altri paesi europei. E prendendo in prestito le argomentazioni di Zagrebelsky, a meno di aberrazioni estreme, che qui non ci sentiamo di avvalorare, non bastano le norme a determinare le dittature o le democrazie. Ci vuole, per fortuna, ben altro. A partire dai comportamenti dei politici, e anche, a volte, dalle scelte degli elettori. Al tempo stesso, sebbene le norme vadano viste alla prova dei fatti, la riforma mostra imperfezioni. E senza dubbio si possono pensare e votare riforme diverse da questa.

Si può essere d’accordo, oppure si può non essere d’accordo. Si può votare sì oppure no. Ma conviene farlo in modo ragionato e non emotivo, evitando di dividersi e scontrarsi tra anti-renziani e pro-renziani. Sarebbe bene che nelle prossime settimane il dibattito pubblico e l’atteggiamento dei singoli superasse la logica delle tifoserie contrapposte, così diffusa negli ultimi mesi. Sarebbe opportuno entrare nel merito delle questioni, studiare, tenersi lontani da risposte preconfezionate e aprioristiche, farsi un’idea meditata. E quindi andare a votare, cercando di fare una sintesi virtuosa tra la propria sensibilità politica, le passioni, perchè no, e l’esame logico dei fatti, il ragionamento raffreddato dalle emozioni più immediatamente di pancia.

 

 

Foto di copertina: giuramento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella – Aula di Montecitorio – Fonte Presidenza della Repubblica.

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