Legislazione

Perché non odio il capodanno

31 Dicembre 2014

Antonio Gramsci odiava il capodanno, io no.  Ogni anno di questi tempi circola in rete il suo famoso scritto “Sotto la Mole” contro il capodanno recante la data 1 gennaio 1916.  Lo riporto per intero così ho più agevole il lavoro di commento che seguirà alla lettura del testo gramsciano.

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno.

Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date.

Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna.

E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbarbagliante.

Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore.

Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca.

Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.

In questo testo Gramsci polemizza contro gli obblighi sociali  (bella l’espressione “rime obbligate collettive”) verso cui tutti siamo allo stesso tempo, diciamolo, docili schiavi perché  vorremmo “essere come tutti” e nello stesso tempo ribelli  a difesa dell’unicità e irripetibilità dell’io. Da questo conflitto ambivalente  nasce forse il disagio sottocutaneo di molti nelle feste di fine anno. Gramsci inventa anche un neologismo:  “travettismo spirituale”. Cosa vuol dire? Ma semplice, basta compulsare i suoi scritti. Siamo a Torino, la città di “Monsù Travet” titolo della commedia di Vittorio Bersezio che mette in scena l’impiegato ministeriale, figura in quei tempi ancora fortemente subalpina  prima che si trasferisse dalle parti di via XX settembre a Roma e parlasse con accento romanesco. L’impiegato statale allora era torinese  e verso di lui, alle sue umiliazioni e ai suoi “eterni ritorni” della vita impiegatizia ciclica, grigia  e senza scosse allude implicitamente Gramsci.

L’articolo è sottoscrivibile fino a un certo punto. Come si fa infatti a negare  che il capodanno, questo segnatempo convenzionale, non è in  soluzione di continuità rispetto allo scorrere del tempo; di più, alla stessa “lunga durata” della storia  rispetto alla quale le  date hanno carattere meramente événementielle direbbe il grande storico Fernand Braudel, cioè sono dei segnaposto fittizi, legati agli eventi  (événements in francese), ma sotto di essi,  scorre il fiume carsico delle grandi e lente trasformazioni,  fiume che affiora qua e là improvvisamente, creando l’effetto catastrofe (ma c’è stato un accumulo silenzioso della neve prima che la valanga venisse giù). E questo effetto catastrofe noi lo segniamo con una data: il 476 d.C, il 1789, il 1915 (l’entrata in guerra dell’Italia), è il momento in cui la qualità si trasforma in quantità e viene giù tutto.

Ma nella chiusa dell’articolo c’è la chiave interpretativa che ci fa rifiutare l’odio gramsciano verso il capodanno. E’ una frase che ha il fragore della dinamite, è una frase “catastrofica”. Rileggiamola: “ Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati”.

Dobbiamo, per meglio capirla, riassumerla questa frase  con termini nostri, non detti ma allusi da Gramsci. Essa dice: fino ad ora la storia è stata una sonnolenta congerie di fatti, segnata da questi segnatempo insignificanti che sono i capodanni, adesso, quando arriverà il socialismo,  che sto aspettando,  tutto cambierà, finirà la preistoria e inizierà la storia vera, quella che conta, la storia socialista, e getteremo nell’immondezzaio tutto il carico del passato e ci sveglieremo al nuovo giorno sotto il risplendere del “ sol dell’avvenire”,  come in quegli anni veniva chiamato il socialismo.

Il Gramsci del 1916 non è ancora comunista. Non ha fondato il partito comunista ovviamente (1921), non potrà  fare “come in Russia” perché i soviet sono ancora di là da venire (siamo alla vigilia del 1917) né ha scritto ancora quell’articolo in cui dirà che la rivoluzione russa è avvenuta “contro il Capitale” di Marx, ossia aveva affrettato con la scossa volontaristica e leninista il sonnolento incedere della storia, che nel pensiero di Marx doveva avere un preciso andamento “dialettico”, ossia prima doveva esserci il maturare delle forze produttive capitalistiche e i relativi rapporti di produzione,  poi la loro entrata in contraddizione , quindi la crisi e il crollo del capitalismo (il Zusammenbruch)  e poi l’avvento del socialismo che avrebbe ereditato perciò una società matura dal punto di vista industriale, mica quel paese semifeudale qual era la Russia di quegli anni.

Però Gramsci aspetta il socialismo. Perché? Perché Gramsci non credeva al gradualismo riformista di Turati  per il quale la transizione al socialismo sarebbe stata come una nevicata lenta che avrebbe trasformato  gradualmente i connotati al paesaggio sociale esistente. Gramsci non sopporta il ministerialismo turatiano, non sopporta il suo “travettismo spirituale”,  Gramsci voleva lo choc tellurico, era già comunista nell’animo.  Voleva la rivoluzione. Guardava alla quarta  barba di Marx: non solo quella dell’economista classico, non solo quella del filosofo hegeliano,   non solo quella dell’agitatore politico alla francese, ma alla barba del profeta biblico. C’è nella nozione di rivoluzione marxiana qualcosa che richiama  l’Apocalissi, nozione ebraica prima che cristiana, che come ci avverte Daniel Boyarin (“Il vangelo ebraico”) è una delle manifestazioni del divino nella storia (teofania) unitamente all’epifania, alla parusia e all’apoteosi.  Nell’Apocalisse il fine e la fine della storia coincidono, teleologia ed escatologia fanno tutt’uno. Il pensiero apocalittico è di chiara origine ebraica. Altro che socialismo scientifico, altro che Darwin delle scienze sociali: profeta biblico il Marx che di nascosto è entrato nella testa vigile di Gramsci.

Io non credo al capodanno gramsciano perché non credo alle rivoluzioni e perché abbiamo pagato caro l’aver inseguito assurde utopie. Molte rivoluzioni ci hanno persuaso una volta per tutte che, nonostante lo sconquasso operato, nulla cambia con esse nei reali rapporti di forza nella società e nell’economia, che insomma è come spostare un peso da una spalla all’altra e che a una vecchia nomenklatura ne subentra un’altra. Inoltre, nel nostro Paese di Gattopardi, abbiamo appreso che spesso la rivoluzione fa davvero in modo che tutto cambi perché tutto resti così com’è. Ecco perché essa è invocata non solo dai perfetti esteti – da tutti coloro che si eccitano davanti alle sollevazioni popolari e alle ghigliottine-, ma anche da quelli che stanno in disparte e attendono gli esiti degli eventi rivoluzionari per tirare i risultati dalla propria parte.

A differenza della rivoluzione, la politica riformista interpella la ragione piuttosto che il cuore. Essa « è difficile- scriveva Michele Salvati anni fa sul “Corriere” – impegna in ragionamenti che tirano in ballo compatibilità e incompatibilità, effetti non voluti o perversi. Esige conoscenze e specializzazione. Richiede di pensare in termini di sistema, economico, internazionale o altro: questo non si può fare perché altrimenti…; quest’ altro, poco, si può fare, ma occorre cautela. Anche il riformismo più coraggioso potrà sempre essere accusato di moderatismo o di sconfinamento nel campo avversario. E questo fa sì che “vendere” un riformismo serio, sia agli elettori, sia agli intellettuali, non sia per nulla facile».

È insomma una politica difficile quella riformista e spesso può sembrare un esercizio mentale freddo, pensato dall’alto e calato verso i destinatari che necessariamente dovranno alcuni perderci e altri guadagnarci (è la politica bellezza). Non la faccio lunga, ma chi la vuole davvero lunga potrà leggere, se mai gli capiterà a tiro, quell’enorme (5 voll.) e informatissima opera che è “Settecento riformatore” del grande Franco Venturi. Ricordo en passant che il Settecento è stata l’epoca di riformismo più intensa che l’Europa abbia mai avuto, e che il fallimento di quelle Riforme (ma non tutte, si pensi al Catasto di Maria Teresa proprio in Lombardia) portò tragicamente alle rivoluzioni.

Le Riforme sono “tentativi ed errori”, non sono idee veritative calate dall’alto come l’apocalissi rivoluzionaria, sono esperimenti nella società al fine di sanare alcune storture o favorire alcuni processi che possano recare il massimo dei benefici a un maggior numero di persone. Ma come tutti gli esperimenti perfettibili devono in qualche modo, se sono buone riforme e se sono pensate da vere teste pensanti, saper cogliere e sanare un aspetto della società in cui intervengono con il minor numero di errori, i quali come è fatale possono essere peggiori dei mali che intendono curare. Le riforme sono perfettibili, le rivoluzioni in genere non hanno via di ritorno. Come la storia ci ha ampiamente dimostrato.

Io non credo perciò al capodanno gramsciano  perché credo al capodanno convenzionale.  Un nuovo inizio ne “l’assiduità pertinace alle incombenze del giorno” di cui discorreva  Gadda in uno scritto su Milano, e in cui proseguiva:  “nella  legittima brama del guadagno, del benessere, una solidità cordiale e civile. Credere e operare nel bene, cavar zecchini il più onestamente possibile dal tempo mortale. Tutto si adempie, a Milano, in una sicura esattezza, che è garanzia e conforto del vivere, incitamento ad avere fede nel domani, e, soprattutto, nell’oggi”. ( Da “Il tempo e le opere”, Adelphi, Milano 1982, pp, 265-266).

E le rivoluzioni e le utopie? Abbiamo già dato. Lasciamole alla critica roditrice dei topi. Il corso della vita di tutti noi non è a “parabola”,  con un inizio e una fine certi, ma  “ciclico” con piccoli eterni ritorni, non come quelli di Nietzsche ma come quelli, più prosaici, del Monsù Travet. Senza mete definitive e millenaristiche, senza un fine e senza una fine, come quelle degli ebrei sì, ma erranti,  in cui noi siamo, come diceva Flaubert in una lettera,  “contemporaneamente il deserto, il viaggiatore e il cammello”.  Sì: da qui all’eternità.

 

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