Legislazione

Perché NO – I pasticci di Renzi sulle banche mostrano la dannosità della Riforma

3 Dicembre 2016

Alla vigilia del voto si sono moltiplicati gli allarmi per una eventuale vittoria del NO. Il Financial Times è arrivato a dire che falliranno otto banche (le solite che sono in crisi da almeno un lustro) . C’è chi si affretta a vendere titoli di Stato per essere liquidissimo. Ci mancava solo gli assalti ai supermercati per completare il clima da Armageddon.

Perché tutto questo? Si sostiene che la sconfitta del Sì sarebbe la definitiva sconfitta di un’Italia che vuole svoltare verso l’efficienza a vantaggio di quella che preferisce restare nella palude degli inciuci e della burocrazia.

Esagerazioni da campagna elettorale di basso livello che mostrano il limite della classe politica italiana, incapace di avere idee e valori sia che sia al governo sia che sia all’opposizione. A questo referendum semplicemente non si doveva arrivare. Il populismo imperante non solo in Italia ma in America , Francia, Gran Bretagna, Paesi dell’est Europa, Turchia non ci aiuta a ragionare sulla sostanza di un passaggio fondamentale quale quello di una riforma della Costituzione.

Tutto questo accanirsi di finanza internazionale e opinion makers anglosassoni (ma si è mosso anche Junker) è sospetto. Fa venire il dubbio che Snowden (film consigliato) avesse ragione: «Prima o poi ci sarà qualcuno che spingerà quel bottone», e allora addio alla libertà individuale di tutti noi.

Ma non diventiamo catastrofisti anche noi. Restiamo con i piedi per terra. La riforma costituzionale proposta e varata dal governo ha, a mio avviso, molti elementi positivi. Abolizione del bicameralismo paritario? Non avrebbe pianto nessuno. Riduzione dei costi della politica? Ben venga. Abolizione del CNEL? Nessuno avrebbe obiettato anche perché nessuno sa più cos’è e cosa fa. Revisione, non riforma, del Titolo quinto (Competenze di Stato e Regioni)? Qui forse qualche sfumatura in più. Le autonomie, volute da questa stessa classe politica nel 2001, hanno mostrato la corda. Troppe inefficienze e troppi veti incrociati. Ha ragione il governo, bisogna semplificare. Viva il principio di supremazia dello Stato, cioè del governo. È giusto però dire che lo Stato non è proprio un campione di efficienza. Ci sono decreti ministeriali fermi da anni a fronte di leggi, a volte ottime, già promulgate, che semplicemente non vengono emessi perché i veti incrociati sono tra ministeri, poteri centrali, consorterie varie.

Per superare i guasti prodotti dalla riforma del titolo quinto del 2001 sarebbe stata opportuna una revisione di dettaglio dei meccanismi di interconnessione e interazione tra centro e periferia, tra Stato e Regioni, fatta con il bilancino del farmacista e poi tradotta in un principio costituzionale, non il contrario. Così c’è una sola evidenza: il governo vuole avere mano libera e difatti si comporta in questa campagna referendaria come si comporterebbe, penosamente per i più avveduti, in una campagna elettorale, promettendo tutto a tutti (ben sapendo che le conseguenze le sconteremo nei prossimi anni con aumenti della pressione fiscale ) e paventando il caos se vincesse il NO.

Il vero problema è che in questa riforma si sono volute introdurre modifiche orientate esclusivamente alla governabilità, mortificando la rappresentatività.
Ma la governabilità non è materia costituzionale. La Costituzione è di per se un limite alla governabilità perché deve garantire a tutti i cittadini di difendere la propria capacità di essere rappresentati. Se il driver della Costituzione fosse la governabilità, la Costituzione stessa non avrebbe alcun senso. Basterebbe una legge elettorale che assicuri il governo al partito che prende più voti. Badate bene, non quindi a quello che conquista la maggioranza assoluta, ma a quello che prende più voti degli altri anche se rappresenta una minoranza esigua. Ma questa è materia di leggi ordinarie. La Costituzione statuisce principi, non regole elettorali.

Il punto è però che se vincesse il Sì avremmo anche il depotenziamento dei contrappesi, cioè prevalenza della governabilità intesa come “governo autoreferenziale” anche grazie ad una legge elettorale che garantirà ad una modesta maggioranza relativa di avere in Parlamento una maggioranza assoluta schiacciante , di nominati e non di eletti. Trascuro l’argomento abolizione/trasformazione del Senato che rappresenta uno dei più fulgidi esempi del bizantinismo e quindi dell’incapacità del nostro ceto politico. Insomma complessivamente un pasticcio molto pericoloso perché, se il No perde questa partita, la perdita di rappresentatività rischia di diventare permanente, aprendo la strada a governi populisti portati in trionfo da un popolo tradito dalla politica.

Ma torniamo alle banche. Perché, se perdesse il Sì, il problema delle banche, che esiste ma non solo per l’Italia, in Italia diventerebbe esplosivo? Quali efficaci provvedimenti sono collegabili alla vittoria del SI? Nessuno. Di banche non si parla, ovviamente , nella Costituzione e tanto meno nella riforma da votare. Allora il sinallagma è che se perde il Sì, Renzi va a casa e le banche falliscono: non vedo il nesso.

Il governo ha già lanciato due riforme importanti. Quella delle banche popolari e quella delle BCC (che ora rischiano di arenarsi, dopo la decisione del Consiglio di Stato e il rinvio al giudizio di legittimità costituzionale). Poi ci sono le quattro banche risolte e il Monte dei Paschi.

Che ci fossero banche popolari ormai troppo grandi per avere la struttura di cooperative con voto capitario era evidente da un pezzo. Merito di questo governo aver fatto una riforma “asfaltando ” senza pietà le resistenze che per anni avevano impedito il passaggio a società per azioni. Conseguenza: due delle principali popolari sono in sostanziale default, salvate, se così si può dire, dall’intervento del Fondo Atlante che però non risolve il problema della loro efficienza e forse della loro sopravvivenza. La situazione è pienamente nella responsabilità di questo governo che ha fatto una riforma giusta nel momento sbagliato , senza rendersi conto delle conseguenze. La gatta frettolosa fa i figli ciechi.

Riforma delle BCC, struttura portante della nostra periferia operosa, ma non sempre efficiente. La riforma punta a superare l’inefficienza creando una capogruppo che trasformerà le singole BCC in meri sportelli, impedendo alla politica locale di usare le BCC come strumento di potere. Attenzione , il nostro Paese ha una struttura produttiva basata sulle microimprese, in media molto più piccole delle piccole imprese tedesche. Questo è un vero limite per la nostra capacità di sviluppo che va superato con adeguate politiche industriali e fiscali, non accorpando le banche perché piccolo è brutto e grande è bello. Non solo questo non è sempre vero, ma non sono certo le grandi banche a saper sempre interpretare gli interessi dei “territori ” dai quali ormai sono ben lontane.

La riforma delle BCC ha scatenato un vespaio per cui ora si parla di due capogruppo e molte BCC cercano di perdere la loro natura cooperativa per altre strade. Francamente non mi pare che neanche questa riforma stia evolvendosi in modo disciplinato, mentre aumenta la confusione e l’incertezza. Anche qui un’idea giusta, in teoria, è stata realizzata male e sta facendo più danni che altro.

Poi c’è la storia vergognosa delle quattro banche risolte. Abbiamo anticipato l’applicazione delle regole del bail in senza rendersi conto delle conseguenze. Le quattro banche erano state depurate delle sofferenze trasferite a una bad bank che non è mai partita e ha già cambiato i vertici in meno di un anno, ma poi ci siamo accorti che nessuno voleva comprare le good bank perché avevano ancora troppi crediti cattivi in pancia. E anche questa è una storia di questo governo. Su MPS lo Stato, pur di non intervenire perché «l’Europa non vuole», lo farà svendere alla finanza anglosassone. Un capolavoro.

Si dirà: ma tutte queste cose vengono da lontano. Dalla crisi dei subprime, dal debito pubblico degli anni ‘80, dalle imposizioni della BCE e dell’Europa. Ecco il punto: gli interventi del governo sulle banche sono tutti imposti dalla BCE e dagli opinion makers della finanza internazionale. Le banche sono inefficienti perché troppo piccole: accorpiamole. Le banche sono inefficienti perché sono troppe: riduciamone il numero sempre accorpandole, senza contare che la somma delle debolezze non fa una forza, perché la forza politica di farle fallire non l’abbiamo. Chi può sopportare la pressione di decine di migliaia di risparmiatori inferociti per la vaporizzazione dei loro depositi e dei loro investimenti?

D’altra parte bisogna reagire a questa crisi che ormai lambisce anche i grandi campioni del sistema bancario nazionale (vedi Unicredit). Vero, ma queste iniziative vanno prese con la giusta gradualità per evitare che il rimedio sia peggiore del male. E vanno prese con la giusta tempestività: sconquassare il sistema bancario in un paese in crisi economica da 10 anni non è un’idea intelligente. Vanno prese con la corretta priorità: prima comprendiamo bene qual è la situazione delle varie banche, la affrontiamo, le mettiamo in sicurezza e poi facciamo la grande riforma delle popolari e quella non meno invasiva delle BCC.

Per troppi anni il nostro sistema bancario è stato lasciato in balia di top manager legibus soluti e senza governo, né controlli dei controllori, spesso preda di politici non di razza ma di rapina. Ora non possiamo pretendere che tutto a un tratto riduciamo il numero delle banche, le ricapitalizziamo anche se perdono miliardi, le costringiamo a sempre più stringenti regole contabili e poi alla fine ci sentiamo dire che “il fallimento è in arrivo” se non si vota Sì. Ma che senso ha?

In effetti il referendum non c’entrerebbe nulla se non perché apre le porte alla governabilità regina delle riforme senza le complicazioni della rappresentatività. Cioè a un governo forte e decisionista che le cose le fa senza troppi compromessi. Ma siamo certi che una minoranza di nominati assicuri il consenso a riforme di grande portata? Non rischiamo di trovarci per le strade i traditi e non più rappresentati dalla politica?

Insomma di fronte alla complessità dei problemi, una classe politica con poche idee e molti interessi punta sulla limitazione della rappresentatività, e quindi della democrazia, per avere maggiore governabilità e quindi agire con decisionismo. In effetti la democrazia è di per sé costosa e poco efficiente. Quando bisogna trovare compromessi tra tanti interessi il lavoro diventa complicato, ci vuole tempo e competenze, oltreché capacità di decisione.
Questo mal si concilia con i tempi quasi istantanei della finanza e quindi la finanza mal tollera le regole democratiche e favorisce i governi decisionisti. Ecco perché in tanti sostengono il Sì. La storia ci ha già fatto assistere a situazioni di questo tipo che non sempre hanno prodotto buoni frutti. Il refrain è: abbiamo la possibilità di fare una riforma tanto agognata (da chi non si sa); non sprechiamo l’occasione. Se vince il No, non cambia nulla, se vince il Sì facciamo un salto in avanti ed aumentiamo la nostra capacità competitiva. Non condivido.

Se vince il NO, non cambia nulla: vero. Nel senso che sicuramente non perdiamo alcune sacrosante caratteristiche della nostra Costituzione, non ultimo il sistema dei contrappesi tra Parlamento, Governo, Corte costituzionale, CSM, legislazione concorrente. Tutte complicazioni , ma che garantiscono la rappresentatività di tutti gli interessi. Se vince il Sì non cambia nulla di sostanziale. Le banche restano in crisi e così tutti gli altri problemi che abbiamo: debito pubblico, pressione fiscale, disoccupazione, de-industrializzazione inefficienza della burocrazia, eccetera.

Ma una cosa cambierà di sicuro: il governo sarà meno condizionato dalle opposizioni e dai poteri diffusi interni, ma questo lo renderà però molto più vulnerabile alle pressioni esterne: finanza, tecnocrazie, ecc. L’opposizione interna spesso è un buon motivo per non subire dall’esterno. Con la vittoria del Sì, questo gioco delle parti non lo avremo più e tutelare gli interessi del Paese diventerà più difficile aldilà della buona volontà dei governanti. L’«uomo solo al comando» sarà meno libero ed avrà meno potere di quanto pensi. E questo senza dire della tragicità, a volte, degli errori del manovratore.
Meglio meno efficienti, ma più liberi.

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