Ambiente

Per salvare il suolo agricolo non basta fare leggi “contro”

26 Luglio 2015

In questi giorni è arrivata una decisione del direttivo del Parco Agricolo Sud Milano – storico ambito di tutela agricolo/paesistica che raggruppa 61 comuni dell’area metropolitana di Milano – che ha negato la possibilità alla Mapei di Giorgio Squinzi di trasformare 13 ettari di area agricola, nel Comune di Mediglia, nella nuova sede dell’omonima azienda.

In sostanza l’imprenditore ha comprato, qualche anno addietro, un’area  ricompresa nel perimetro vincolato del Parco Sud, pagando – da quanto si legge – un prezzo ben più alto di quello riconosciuto dal mercato per le aree agricole (parrebbe circa 10 volte tanto); ciò perchè ha scommesso sul noto meccanismo del “cambio di destinazione d’uso da agricolo a industriale” convinto del fatto che, come è sempre accaduto in questi decenni, nel duello tra agricoltura e industria avrebbe vinto – senza indugi – la seconda.

In questo caso Squinzi ha sbagliato. Primo perché non è mai buona norma comprare aree scommettendo, secondo le regole di quella che (senza alcun moralismo o giudizio di merito) si definisce “speculazione, su modifiche urbanistiche strutturali connesse a decisioni politiche; secondo perché non ha compreso quanto sia mutata – in breve tempo – la sensibilità di amministratori e cittadini su tali questioni.

Oltre a ciò – e mi avvicino al nodo della questione – Legambiente Lombardia, nota per non essere ideologicamente contraria a ogni trasformazione ma per essere attore che difende razionalmente il paesaggio agrario e la sostenibilità dello sviluppo, ha dimostrato come il nuovo impianto Mapei avrebbe potuto benissimo stare in un’area industriale dismessa, confinante con l’area agricola acquistata.

SI può dire che questa vicenda sia una sorta di caso di scuola. Da un lato, infatti, evidenzia un retaggio culturale di certa industria che vede nelle vie brevi le strade più semplici per ottenere risultati – seppur importanti – a discapito di valori indiscutibili che intaccano “beni comuni” come il suolo agricolo e il paesaggio; dall’altro invece mette a nudo la necessità, se si vuole realmente difendere il terreno agricolo, uscire dall’ideologia e dalla sola produzione di leggi “contro” (si pensi alla proliferazione di leggi contro il consumo di suolo), per cercare soluzioni normative pragmatiche, partendo anche dalla comprensione delle ragioni per cui un imprenditore del rango di Squinzi possa prendere decisioni come quelle sopra tratteggiate.

Il punto è semplice e quasi elementare: oggi, per un soggetto economico che necessiti di fruire per la propria attività di trasformazioni d’uso del suolo, è sempre più conveniente fare scommesse azzardate contando sulla disponiblità di nuda terra agricola, piuttosto che acquisire aree dismesse o abbandonate puntando sulla loro totale rigenerazione. Rigenerare, infatti, costa sempre molto più che consumare. E non solo per la complessa, onerosa e farraginosa procedura necessaria per le bonifiche ambientali, ma anche per la lunghezza dei processi di variante urbanistica, connessa con una giurisprudenza che pare non aver compreso la portata della sfida epocale in atto.

Le cooperative di abitazione di Confcooperative Federabitazione hanno pensato che si debba percorrere con convinzione la strada della rigenerazione. Una vera cooperativa di abitanti, che si regge sui risparmi delle persone che vogliono costruirsi una nuova casa, non dovrebbe mai comprare un’area agricola. Una vera cooperativa di abitanti dovrebbe comprare sempre e solo o aree già edificabili secondo gli strumenti urbanistici vigenti o, meglio ancora, aree dismesse in tessuti urbani consolidati (favorendo così anche processi di rigenerazione urbana e sociale). Per questo Federabitazione ha iniziato a porre con determinazione una questione: o si avvia un forte processo di incentivazione – procedurale e fiscale – per quei soggetti che operano su suolo già consumato, penalizzando contemporaneamente chi opera sulla trasformazione di aree agricole, oppure la sfida per la nuda terra – alla lunga – sarà sempre persa.

In questo senso sono da vedere con grande favore due iniziative parlamentari a diversi stadi di elaborazione. La prima è una proposta di Disegno di Legge, all’esame della Commissione Industria, Commercio e Turismo del Senato, i cui relatori sono i senatori Francesco Scalia del PD e Gianni Piero Girotto del M5S, che ha l’obiettivo di sostenere finanziariamente la riconversione di aree dismesse; la seconda è invece la presentazione di un sub-emendamento alla legge sul consumo di suolo, presentato dall’onorevole Francesco Prina del PD, che introduce la defiscalizzazione degli oneri occorrenti per le bonifiche di aree dismesse, da trasferire agli ultimi utlilizzatori, ossia gli abitanti. Due proposte che segnano un intelligente cambio di passo del legislatore che ha compreso la necessità di determinare un favor significativo ai processi di rigenerazione.

Dal canto nostro, come Federabitazione, riteniamo però che si debba agire anche su altri fronti. Si dovrebbe pensare innanzitutto di concedere alcune possibilità di imposizione fiscale ai comuni, consentendo di introdurre una “fiscalità di contrasto” per quei detentori di aree o immobili dismessi che – dopo un certo periodo dalla cessazione di ogni attività (3 o 5 anni) – non abbiano ipotizzato alcun progetto di rigenerazione; ciò potrebbe concretizzarsi, per esempio, attraverso una progressività dell’Imu ben più radicale dell’attuale. Dall’altro lato, invece, attivare una “fiscalità di vantaggio” per chi agevola percorsi di recupero urbano, con vantaggi tanto più forti, quanto più i progetti siano a forte valenza sociale, con forti connotati di interesse pubblico e con progettisti selezionati con concorsi. Sul fronte pubblico andrebbero invece penalizzate le municipalità che, senza razionali e oggettive motivazioni, frenano ogni processo di recupero di aree dismesse in tessuti consolidati, consentendo magari l’edificazione in aree di espansione.

Oltre a ciò andrebbe rivisto con coraggio tutto il sistema vincolistico e di tutela sino a oggi pensato; esso non risponde ad alcun criterio gerarchico e selettivo ma – considerando monumento vincolato tanto una chiesa del ‘500, quanto uno squallido consorzio agrario di epoca fascista – pone un indistinto blocco alla trasformazione del costruito che, alla lunga, genera decadimento urbano e consumo di nuovo suolo.

Dando quindi  per scontato il fatto che la difesa del paesaggio agrario (e del paesaggio nella sua più ampia accezione) è un imperativo anche per chi si occupa di trasformazioni urbane, è necessario – anche in questo caso – percorrere strade nuove che, con determinazione, diano impulso alle sterminate possibilità che nascono dalla rigenerazione di aree dismesse. Non solo “vietando” ma, soprattutto, sollecitando e incentivando i soggetti più virtuosi.

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