Legislazione
L’opinione sul referendum costituzionale del professore Tommaso Frosini
In occasione del Referendum sulla Riforma elettorale che si terrà in autunno, pubblichiamo su Gli Stati generali una serie di interviste a costituzionalisti, professori, accademici, giuristi e esponenti del mondo della cultura e delle istituzioni.
Il terzo a rispondere alle nostre domande è Tommaso Frosini, Professore Ordinario di Diritto pubblico comparato all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Consigliere di amministrazione del CNR, già membro del Comitato dei Saggi costituito dal Ministro per le riforme istituzionali e Presidente del Comitato scientifico di Società Libera.
Nel suo saggio inserito ne La riforma Costituzionale ai raggi X si rende nota la sua posizione favorevole al Sì. Quali sono le sue ragioni?
Le mie ragioni provengono da lontano. In Italia ormai sono più di trent’anni che si prova a cambiare la Costituzione nella parte relativa ai poteri. Io stesso ho fatto parte della cosiddetta Commissione dei Saggi, nominata da Enrico Letta, che elaborò un testo nel quale si proponevano alcune modifiche della Carta. In particolare una che adesso è oggetto del voto referendario, cioè il cambiamento del bicameralismo paritario. L’Italia è l’unico paese in Europa in cui due Camere hanno le stesse identiche funzioni. Da qui l’esigenza di fare del Senato una Camera rappresentativa degli enti territoriali, anche a seguito della riforma del 2001 che ha accentuato la componente federalistica del nostro Paese. Il desiderio di introdurre una differenziazione tra le due Camere oggi finalmente è oggetto di una Riforma. Per tale motivo mi dichiaro a favore. Non ci vedo nessun pericolo, anzi una semplificazione e un adeguamento alle democrazie europee nelle quali una Camera dialoga con il governo e l’altra rappresenta le autonomie territoriali. Siamo in un momento di svolta significativo.
Perché è impellente completare il processo di federalismo avviato nel 2001?
Si è sempre detto che la riforma del 2001 era una riforma federalista troncata perché non prevedeva che una delle due Camere fosse rappresentativa delle regioni. Nel 2001, quando è stato cambiato l’articolo V, c’è stato un contenzioso spaventoso alla Corte costituzionale: le regioni sono entrate in conflitto con lo Stato per capire quale fosse la competenza legislativa dell’uno e dell’altra parte. Ora tale riforma prevede che nel titolo V non ci sia più la competenza concorrente che vede la compartecipazione dello Stato e delle regioni, ovvero lo Stato legifera per determinate materie fissate in Costituzione, mentre delle materie non previste a favore dello Stato è competente la regione. Viene quindi ad essere eliminata la zona grigia che prevedeva una competenza legislativa frutto di una scelta da parte dello Stato e una legislazione di dettaglio da parte delle regioni. In secondo luogo il Senato, composto da 100 senatori rappresentativi delle regioni e una ventina di sindaci, farà in modo che tutta la materia di competenza delle regioni verrà discussa in quell’ambito. È lì che devono essere trovate le soluzioni di mediazione, di compromesso e di scelte condivise. Oggi, qualora vincesse il Sì, si verrebbe a completare quel disegno incompleto di federalismo iniziato nel 2001.
In che modo, a suo parere, è possibile eliminare il rischio che i senatori diventino degli “invalidi della Costituzione”?
I senatori si ritaglieranno uno spazio diverso da quello che hanno avuto finora. Saranno dei consiglieri regionali, quindi porteranno l’esperienza della periferia, delle regioni, delle realtà locali e avranno compiti diversi: non dovranno dare la fiducia al governo e non avranno una piena partecipazione al procedimento legislativo. Quindi il Senato cambierà ed è chiaro che si ridurrebbe come rappresentanza istituzionale. Vi è ora la necessità costituzionale di cambiare il volto del Senato facendo fare ai senatori un mestiere diverso da quello che facevano i loro predecessori nel sistema di bicameralismo paritario.
Ponendosi in controtendenza, si esprime in favore della legge elettorale giudicata dai più illegittima. Perché secondo lei l’Italicum favorisce la sintesi tra due principi costituzionali basilari quali sono la governabilità e la rappresentanza?
Molti dei sostenitori del No sono avversi non tanto alla riforma del Senato quanto all’Italicum abbinato alla riforma costituzionale poiché nell’Italicum avremmo una maggioranza precostituita alla sola Camera dei Deputati e quindi il Presidente del Consiglio potrà fare quello che vuole. Qui c’è un Paese da governare e se non mettiamo in condizioni un governo di poterlo fare non siamo più in grado di stare al passo con i tempi della trasformazione sociale che richiede un governo capace di decidere bene. Io penso che l’Italicum, pur non essendo la miglior legge, consentirebbe di avere una maggioranza idonea a governare e questo è l’obiettivo principale. Il legislatore ha pensato, però, a una legge elettorale proporzionale in modo tale che ci possa essere la rappresentanza anche dei piccoli partiti purché superino il 3%. Cioè, è vero che vi è un premio assegnato al partito che ottiene il maggior numero di voti, ma ci saranno anche le minoranze dal momento che i voti vengono distribuiti proporzionalmente. È un sistema che combina, cosa difficile, questi due elementi così significativi delle nostre democrazie, cioè la rappresentanza politica delle minoranze e la governabilità. L’Italicum è pensato per riuscire a ottenere una sintesi così complicata. Io lo ritengo un sistema efficiente. E poi non mi pare ci siano proposte alternative valide all’Italicum.
Cosa intende quando afferma che “tale legge elettorale valorizza il cosiddetto premierato a Costituzione invariata”?
La lista che si presenta alle elezioni avrà un proprio leader, un segretario del partito. Se quel partito dovesse vincere le elezioni allora tendenzialmente il leader di tal partito diventerà Presidente del Consiglio. È come se il cittadino-elettore votasse anche per il governo. Questo è però un dotto del sistema elettorale. Non si è cambiata la Costituzione.
È di pochi giorni fa la dichiarazione del Ministro Boschi: “Per avere un’Europa unita contro il terrorismo serve un Paese forte, con una Carta che dia stabilità”. Siamo di fronte a un caso di strumentalizzazione?
Il terrorismo non si combatte con la Costituzione. Ma la Boschi ha ragione, ammesso che lo abbia detto davvero, nel ritenere che dove c’è stabilità c’è più capacità di decisione. I governi che durano e che riescono ad attuare un programma di indirizzo politico durante l’intero quinquennio del mandato contano di più anche in Europa.
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