Legislazione

L’opinione sul referendum costituzionale del giurista Luigi Mazzella

18 Luglio 2016

In occasione del Referendum sulla Riforma elettorale che si terrà in autunno, pubblichiamo su Gli Stati Generali una serie di interviste a costituzionalisti, professori, accademici, giuristi e esponenti del mondo della cultura e delle istituzioni.
Il primo a rispondere alle nostre domande è Luigi Mazzella, giurista, politico italiano e vice presidente emerito della Corte Costituzionale.

Dal suo intervento nel libro La Costituzione ai raggi X, pubblicato dal Periscopio delle idee, si evince una posizione contraria al testo della riforma costituzionale, ma non a un ipotetico miglioramento della Costituzione.

Sono perfettamente d’accordo con una riforma costituzionale, a patto che venga fatta con le forme dovute chiamando a impegnarsi tutta la popolazione e non con i sistemi che mandano al governo una minoranza della minoranza. Se la Costituzione del 1947 è servita a garantire il passaggio dall’Italia agricola all’Italia industriale, oggi ne occorre un’altra che garantisca il passaggio da un’Italia industriale a un’Italia post-industriale, quella della produzione dei beni materiali e dei servizi. Sono io, quindi, favorevole in astratto a una riforma della Costituzione, ma non ritengo che questa possa avvenire ad opera di un governo che è illegittimo in quanto espressione di un parlamento illegittimo, per iniziativa di un capo dello Stato eletto da un Parlamento illegittimo. In una situazione di illegalità diffusa come è attualmente in Italia, non è lecito pensare a una riforma della Costituzione perché non sarebbe una cosa seria e non sarebbe espressione della volontà dell’intero popolo italiano. Il sì significa pertanto a mio parere rinunciare alla democrazia in Italia.

Quale sarebbero secondo lei le disfunzioni che si verificherebbero qualora vincesse il Sì?

Passare da una società industriale a una società di servizi significa irrobustire e proteggere con le norme della Costituzione i servizi che noi possiamo offrire alla collettività mondiale. A parte i servizi bancari, amministrativi e finanziari, che sono propri di diversi Paesi, la peculiarità dell’Italia è offrire un servizio turistico efficiente e una ricchezza di patrimonio storico, artistico, archeologico e architettonico di primissimo rilievo. Nella bozza di riforma proposta non vi è traccia dell’esigenza di tutelare al massimo i beni che possono consentire al Paese di riprendersi, sfruttando cioè la qualità di Bel Paese dell’arte e della cultura. Io sono quindi contrario alla riforma in questione perché dietro il paravento dell’abolizione del Senato si tenta solo di irrobustire il potere del Capo del Governo. Il quale Capo del Governo insegue una governabilità che aspira al massimo, la quale è possibile solo nella dittatura. Allora per non cadere nella dittatura bisogna garantire la rappresentatività di tutti i cittadini, che non sono la sparuta minoranza che ha votato con l’illegittimo Porcellum.

Tale referendum metterebbe quindi in pericolo “le condizioni necessarie per la buona salute della nostra democrazia”?

Sì, verrebbero di fatto eliminate. La buona salute presuppone uno Stato efficiente in grado di vendere i propri servizi. La nuova Costituzione non ci garantirebbe di offrire un buon turismo e il patrimonio culturale. Il nostro patrimonio purtroppo è tra i più fatiscenti e in caduta libera, mentre il turismo è affidato a istituzioni locali che lo sfruttano esclusivamente per un loro tornaconto personale.

Nel suo saggio parla di “peronismo all’italiana” in seguito al crollo dell’ideologia fascista e comunista. Di cosa si tratta?

I paesi più democratici sono quelli anglosassoni. A questi però, come accadeva per gli antichi romani con i barbari, non interessa esportare le proprie forme di democrazia negli altri Paesi. Tutti gli statisti che improntano la loro attività ad un empirismo pragmatico si preoccupano esclusivamente della loro democrazia. L’America per anni ha favorito i populismi negli Stati sudamericani che hanno a loro volta garantito all’America di gestire il potere in maniera abbastanza libera. Oggi si sta verificando lo stesso fenomeno in Europa: le grandi democrazie non si dispiacciono dei populismi che stanno vegetando nei vari paesi dell’Europa continentale. Ma che cos’è il populismo? Il populismo è un modo di arraffare voti seguendo i sondaggi, è la ricerca del voto perseguendo il potere. I populismi sono stati di due specie: o si sono ancorati a sinistra muovendosi in nome del popolo o si sono ancorati a destra proclamando la superiorità e la necessità della supremazia di quella determinata Nazione. L’unico che in Sudamerica ha cercato di conciliare il diavolo e l’acqua santa è stato Juan Domingo Perón che con la moglie Evita Perón unì il populismo di sinistra (il Pueblo), il populismo di destra (la Nación) e quello cattolico. Ora, il sentir parlare il leader di un Partito democratico – se demos sta per pueblo allora è da intendersi come il partito del popolo – di partito della Nación mi ha fatto venire in mente l’idea del peronismo argentino.

Sarebbe stato d’accordo con lo “spacchettamento”?

Non ci sarebbe dovuto essere l’impacchettamento perché l’articolo 138 della Costituzione prevede che si modifichino singole parti della Carta, ma non prevede un procedimento di revisione costituzionale così globale come quello che è stato fatto. Se è stata creata un’apposita assemblea costituente per scrivere la Carta è altrettanto necessaria un’assemblea costituente per riformarla in toto. Invece l’attuale governo ha “impacchettato” una serie di norme che hanno portato a un ribaltamento totale dell’impianto costituzionale. Ammettere lo spacchettamento equivarrebbe ad ammettere che l’impacchettamento è stata una cosa legittima. È stata invece una stortura alla quale non è possibile porre rimedio con lo spacchettamento.

Biancamaria Stanco
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