Legislazione
L’inferno delle convivenze di fatto: il vero attacco della Cirinnà al matrimonio
La discussione sul DDL Cirinnà sta infiammando i commentatori e i politici del Paese. Il terreno di scontro è la regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso disciplinata dal capo primo della proposta in discussione in questi giorni al Senato. I detrattori sostengono che le unioni civili costituiscano un attacco frontale all’istituto matrimoniale e alla famiglia tradizionale quando, in realtà, si tratta di un tentativo tardivo e parziale di riavvicinare l’Italia al resto del mondo occidentale dove esistono da molti anni forme più o meno complete di riconoscimento delle coppie omosessuali o la possibilità per loro di accedere direttamente al matrimonio.
Incredibilmente, si è parlato poco o niente del capo secondo del DDL che disciplina, invece, le convivenze di fatto. All’art. 11 della legge, si definiscono come conviventi di fatto due persone maggiorenni – di sesso diverso o dello stesso sesso – unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile. Per stabilire la data di inizio della stabile convivenza, la legge fa riferimento alla data in cui entrambi collocano nel medesimo indirizzo la comune residenza. I successivi articoli disciplinano gli effetti giuridici di questo stato di fatto: si prevede, tra l’altro, il reciproco diritto di visita e assistenza in ospedale e in carcere (art. 12), la possibilità di successione nel contratto di locazione in caso di decesso del conduttore (art. 13, c. 3), il riconoscimento quale nucleo familiare per le graduatorie per l’assegnazione di alloggi di edilizia popolare (art. 14), la parificazione allo status di coniuge superstite in caso di decesso dell’altro convivente per fatto illecito di terzi con conseguente applicazione dei medesimi criteri per il risarcimento del danno.
E fin qui, tutto sommato, la proposta, pur molto innovativa, non solleva particolari rilievi.
Sennonché la legge prevede anche che in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza, il convivente di fatto superstite abbia diritto di continuare ad abitare nella stessa casa per un periodo pari alla convivenza per un minimo di due anni e un massimo di cinque (art. 13, c. 1-2). Il che significa che, senza che il proprietario abbia mai previsto alcunché, gli eredi legittimi si troverebbero danneggiati da una situazione “di fatto” come la convivenza. La cosa bizzarra di questa previsione è che essa è valida “ex lege” e cioè a prescindere dal consenso, prestato in vita, del proprietario defunto. In altre parole, non si scappa.
Altro articolo assai discutibile è il 15 “Obbligo di mantenimento o alimentare”: la legge Cirinnà statuisce, in caso di cessazione della convivenza di fatto, il diritto del convivente a ricevere dall’altro quanto necessario per il suo mantenimento oltre agli alimenti per un periodo determinato in proporzione alla durata della convivenza. In altre parole i fidanzati conviventi che decidono di lasciarsi si trovano vincolati a obbligazioni di natura patrimoniale simili a quelli derivanti dal matrimonio, con la sola differenza della, non ben precisata in termini quantitativi, temporaneità. Anche in questo caso, non c’è modo di sfuggire da questa previsione: se vivi una convivenza con legami affettivi, dovrai pagare gli alimenti e il mantenimento alla parte economicamente debole in caso di “rottura” del rapporto.
Preoccupa che non si abbia notizia di un parlamentare che abbia sollevato la questione di una disciplina che entra, ingiustificatamente, nella stanza da letto delle coppie italiane disciplinandone in modo paternalistico aspetti di carattere patrimoniale che, in un paese libero, dovrebbero essere lasciati ai conviventi e alla loro scelta.
Lo Stato non solo si arroga il diritto di decidere come i cittadini debbano destinare la propria eredità prevedendo quote riservate per i coniugi e i parenti, ma arriva a imporre la propria morsa regolatoria anche su rapporti che sono per definizione “di fatto” e tali dovrebbero rimanere. Se le coppie vogliono stabilire reciproci obblighi patrimoniali potrebbero stipulare un contratto di convivenza (peraltro anche questo dettagliatamente disciplinato dalla legge Cirinnà agli artt. 19 e seguenti) o sposarsi/unirsi civilmente. Ma non si capisce per quale ragione non si possa lasciare almeno un piccolo spazio di libertà in relazioni affettive e di convivenza che spesso sono proprio delle “prove” prima di prendere impegni vincolanti.
Peraltro, stupisce che i secolari difensori dell’istituzione matrimoniale (di cui personalmente non faccio parte) non abbiano notato che la pedante regolamentazione delle coppie di fatto, questa sì, avrà l’ovvio effetto di depotenziare l’efficacia dell’istituto matrimoniale con il possibile conseguente e definitivo declino del medesimo.
Sarebbe bene che i Senatori della Repubblica si concentrassero sull’assurdità dell’articolo 13 c.1-2 e dell’articolo 15 del DDL, decidendo per la loro abrogazione o sostanziale modifica, per evitare di consegnarci un Paese che, se da un lato è più libero perché consente anche alle coppie omosessuali di sposarsi, dall’altro è un inferno statalista e paternalista in cui non è possibile fidanzarsi e convivere senza che questo implichi pesanti conseguenze patrimoniali.
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