Legislazione

La verità trent’anni dopo: il “nuovo” codice ha fallito

29 Aprile 2016

Alla fine del 1989 veniva introdotto in Italia il “nuovo” Codice di Procedura penale che, dopo lunga gestazione e il contributo di alcuni tra i maggiori giuristi del tempo, mandava definitivamente in cantina quello “glorioso” del 1930. Si disse, con certa enfasi, che il “nuovo” processo, costruito secondo il modello accusatorio di matrice anglosassone e non più inquisitorio, vetusto retaggio del vecchio regime, sarebbe stato più “garantista”. Bizzarro neologismo posto che, riferendosi al rispetto delle garanzie di legge dell’imputato, sembrerebbe accreditare l’esistenza di qualcuno che altrettanto legittimamente non lo fa.

Il nuovo processo penale prevedeva alcuni capisaldi destinati, sulla carta, a rivoluzionare quello precedente. Una fase iniziale di ricerca della prova da parte dell’accusa dalla durata massima di sei mesi e sotto il rigido controllo dell’Autorità Giudiziaria sulle indagini di Polizia prima di dare accesso alla difesa. Una seconda fase di preventiva verifica, da parte di un Giudice terzo, della effettiva necessità o meno di celebrare un processo sulla base del materiale raccolto da entrambe le parti. Una terza fase di verifica dell’effettiva fondatezza dell’accusa da parte di un Tribunale del tutto ignaro di quanto in precedenza avvenuto, previa l’acquisizione orale delle prove presentate a dibattimento dalle parti in contraddittorio in condizione di assoluta parità.

I due successivi gradi di impugnazione invece non differivano troppo dal rito abrogato, il primo restava una rivalutazione di merito di quanto acquisito in primo grado ed il secondo un controllo di legittimità sulla sentenza ricorsa. A latere del “modello” base furono introdotte alcune significative “novità”, le tre principali erano: 1) la previsione di riti alternativi “snellenti” che introducevano incentivi in punto di pena (ma non solo) per l’imputato che rinunciava al pubblico dibattimento, 2) la rivisitazione del regime cautelare previgente per circoscrivere allo stretto necessario la limitazione della libertà di un cittadino non ancora condannato e 3) l’abolizione della vecchia formula assolutoria per “insufficienza di prove” secondo il principio che la responsabilità penale dell’imputato deve essere provata dall’accusa “al di là di ogni ragionevole dubbio” dovendo lo stesso, in caso contrario, essere assolto. La “ratio” alla base della scelta del legislatore era quella di ridurre il numero dei processi penali ai soli casi veramente meritevoli di un compiuto accertamento dibattimentale e non solo per velocizzare i tempi della giustizia ma anche per non sottoporre a lunghi, costosi e logoranti processi cittadini che magari dopo anni di sofferenze risultavano innocenti.

A distanza di quasi 30 anni possiamo dire che di quell’idea iniziale è rimasto ben poco. Le indagini “segrete” del PM si protraggono ben oltre il limite di legge, essendosi nel tempo trasformata, la prevista facoltà di chiedere al Giudice una proroga, da eccezione a regola, e l’abuso della “delega di PG” da parte dei PM ha fatto sì che le indagini si risolvano molto spesso in accertamenti di Polizia Giudiziaria cui il PM mette solo il proprio finale avallo. Nei procedimenti costruiti per lo più sull’esito di intercettazioni, di cui viene fatto largo uso e per un numero sempre maggiore di reati, l’iniziale brogliaccio di PG che ricostruisce il contenuto di mesi di ascolto finisce con l’essere il fulcro del “file” sul quale viene formulata dal PM la richiesta di provvedimenti cautelari al GIP che a sua volta li trasfonde nell’Ordinanza applicativa che molto spesso diventa a sua volta il tessuto motivazionale di una Sentenza in sede di Giudizio abbreviato di altro GIP poi confermata dalla Corte d’Appello e ratificata dalla Corte di Cassazione.

Le condizioni per applicare misure cautelari anticipate hanno perduto da tempo quei requisiti di assoluta concretezza e indispensabilità e il ricorso alla misura più estrema del carcere quello di eccezionalità rispetto alle tante altre meno afflittive pur previste, al punto da rendere sempre più elevato il numero dei detenuti preventivi che poi finiscono paradossalmente per subire la pena solo “prima” della condanna e non “dopo”. Detenuti da innocenti e liberi da colpevoli insomma. E’ stato persino consacrato in legge, valido anche per la Cassazione, lo stavagante concetto del “giudicato cautelare” in punto non già di indizi bensì di esigenze per definizione contingenti e rivedibili. In tal modo un “pericolo di reiterazione” prognosticato a dicembre per un soggetto libero di agire come meglio crede non sapendo di essere stato “attenzionato” rimarrebbe concreto anche dopo un anno di carcere in assenza, testuale di “fatti nuovi” (che non si capisce quali possa porre in essere chi si trova da mesi recluso se non forse rendere confessione). Per scongiurare la scadenza dei termini cautelari di fase è invalsa da anni la scelta da parte del PM di ricorrere al rito immediato per saltare l’Udienza preliminare non già, come originariamente previsto, per quei casi dove la prova risultava così “evidente” da rendere inutile il giudizio prognostico del GUP (e che avrebbe dovuto essere raccolta in tempi rapidi) ma per condurre l’imputato in manette di fronte al Giudice dell’accertamento. Né le cose vanno meglio nella seconda fase cosiddetta filtro, giacchè ogni valutazione prognostica negativa di un GUP viene successivamente ritenuta indebita ingerenza nel merito dell’accusa da demandarsi alla fase successiva, svuotando così di significato la previsione di cui all’art. 425 Cpp e la stessa Udienza Preliminare, non a caso ormai talmente “intasata” di trattazioni preventivamente fissate ogni 5 minuti dal GUP di turno a significarne la sostanziale inutilità. Peraltro la facoltà di poter liberamente scegliere tra dover scrivere un provvedimento motivato e soggetto a gravame e limitarsi a indicare una data del calendario, mal si concilia con i notevoli carichi di lavoro di un ufficio GIP che nato per “filtrare” non filtra più. Neppure nella terza fase dibattimentale le cose sembrano essere andate per il verso previsto. Il principio della ricerca della verità ha sottratto la disponibilità della prova alle parti, ed al PM che “dimentica” di allegare prove per l’accusa suppliscono i poteri di integrazione d’ufficio del Giudicante. E così pure il principio di oralità, sovvenendo prontamente l’allegazione di quanto avvenuto prima, in caso di difformità dibattimentale di un testimone o imputato. Si badi a tale proposito che anche l’istituto dell’incidente probatorio, eccezionale ipotesi di anticipazione della prova durante le indagini per scongiurare il rischio di dispersione è ormai abitualmente invocato dai PM per consacrare una chiamata di correo di soggetto destinato ad uscire dal processo con riti alternativi in forza di sconti di pena premiali. L’abolizione della formula dubitativa con il senno di poi si è rivelata un boomerang per l’imputato che un tempo poteva essere assolto in caso di prova equivoca e che oggi rischia invece di essere condannato, magari dopo ben due assoluzioni di merito, per non essere stato in grado di provare in modo assoluto la propria innocenza al quinto giudice del rinvio. Il rito abbreviato che prevedeva lo sconto “secco” di un terzo della pena avrebbe dovuto, sulla carta, preservare dalla pena dell’ergastolo i rei confessi d’omicidio, ma con la “trovata” di applicare detto sconto di legge all’isolamento diurno (sic !) fioccano ancora oggi ergastoli a tutto spiano anche senza Corte d’Assise. E così pure il patteggiamento, originariamente previsto per concludere il processo senza un accertamento e quindi senza conseguenze, è stato dal legislatore “allargato” a tal punto da far si che oggi qualcuno accetti, per limitare i danni, di scontare anche 5 anni di galera senza neppure essere stato dichiarato colpevole. Il grado di appello è diventato molto spesso una mera camera di consiglio anche se interposto avverso una sentenza dibattimentale e a prescindere dall’espressa richiesta di dire subito se si intende discuterlo o meno, eliminando così anche la lettura della relazione, unico momento di pubblico confronto con gli altri membri del Collegio. Quanto infine alla Corte di legittimità, capace come si è visto di entrare pesantemente nel merito di alcuni casi di rilevanza mediatica, i margini per ritenere viziata la motivazione di una sentenza paiono ormai essersi ridotti al lumicino rendendo la semplice dichiarazione di infondatezza del gravame persino un “successo” del ricorrente a fronte dell’abusato ricorso alla bocciatura di inammissibilità, che opera sempre in caso di intervenuta prescrizione nelle more. Questo che parrebbe essere il “Lamento di Federico” non già dell’Arlesiana del noto Cilea, ma di un avvocato deluso dall’attuale processo penale, vorrebbe invece essere uno stimolo. Per rivedere da parte di tutti gli operatori, avvocati, giudici, pubblici ministeri, lo stato delle cose dopo quasi 30 anni di applicazione di un rito processuale molto diverso da quello sul quale molti di noi si erano formati. Ma siccome siamo tutti presi a litigare sulla prescrizione corta o lunga o sulla contrapposizione tra giudici e politici che “non si vergognano” so già che questo non succederà. Però mi pareva giusto dirlo, anche per ricevere le giuste critiche di chi legittimamente la pensa in un modo diverso dal mio.

Davide Steccanella
avvocato

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