Legislazione
Perché il Pd parla della Raggi più che della sua buona legge sulle partite Iva?
Una buona legge è una buona legge, e va celebrata e raccontata come merita, anche quando arriva molto tardi sia dal punto di vista dei bisogni cui risponde sia da quello, meno alto eppure importante in democrazia, del consenso che va a raccogliere o, ancora più prosaicamente, del dissenso che deve provare a tamponare.
È il caso della legge che è che arrivata oggi al Senato, col nome “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato” e volgarmente ribattezzata come “jobs act delle partite iva”. La traduzione giornalistico politica non rende in effetti giustizia alla legge per due ragioni: il jobs act infatti regolava anzitutto in maniera più permissiva la disciplina dei licenziamenti, ed era quello il suo cuore organico, mentre questa legge pone al centro un aumento di garanzie contrattuali previdenziali e salariali per i lavoratori non dipendenti. Secondariamente, la definizione “partite iva” è al contempo troppo ampia (sono dotati di partite iva anche gli imprenditori, esplicitamente esclusi dalla nuova disciplina) e troppo restrittiva, visto che la nuova legge introduce tutele e nuove norme che riguardano tutti i rapporti di “lavoro autonomo di cui al titolo III del libro quinto del codice civile”, che non necessariamente vedono coinvolti lavoratori dotati di partita iva.
Nel merito, la legge, nata come disegno di legge del Ministero del Lavoro di Giuliano Poletti, presentata al Senato, emendata e migliorata alla Camera, e oggi tornata al Senato per l’approvazione definitiva, rappresenta un deciso passo avanti per oltre due milioni di lavoratori italiani. Di sicura importanza, dopo tanti anni di integrale abbandono delle categorie interessate da parte della politica, sono le norme sulla malattia, la possibilità di sospendere pagamenti previdenziali e assicurativi senza penalizzazioni o more, e le regole sui congedi parentali e, in particolare, la gravidanza da parte delle lavoratrici autonome cui, ad esempio, sarà riconosciuto il diritto all’indennità di maternità indipendentemente dall’effettiva astensione dal lavoro. Ancora, sempre nel merito della legge, è interessante e positivo il riconoscimento di diritti e tutele per il “lavoro agile”, la detraibilità degli investimenti in formazione, il diritto al riposo (pur con formule tortuose e di complessa applicazione come il “diritto alla disconnessione”), e la ricerca di coperture finanziarie stabili e strutturali anche per i prossimi anni.
Restano aperte – e l’approvazione di questa legge è peraltro un’ottima maniera per ricominciare a parlarne – tante questioni, grosse, che riguardano queste categorie. La pressione fiscale e previdenziale elevata e disarmonica. La complessità burocratica che colpisce tutti, ma gli autonomi sicuramente di più. Ma negare che siamo di fronte a un passo avanti e ad una scelta davvero progressista e che sta nei tempi che viviamo e che vivremo sarebbe assurdo. Il passo avanti c’è, e va sostenuto, perché apra la strada a nuove politiche integrate del lavoro, e perché davvero si apra una nuova stagione politica, e di politiche, di maggiore e diversa attenzione a uno dei segmenti più innovativi e produttivi della società italiana.
Proprio perché il passo avanti c’è, allora, colpisce lo strano “silenzio” di chi ha merito principale di questa nuova legge, cioè il Pd. Dopo essere stati – anche da noi, a suo tempo – criticati perché di queste forme di lavoro contemporaneo e vitale non si occupavano, ora che ci arrivano, e in maniera in dignitosa, gli uomini e le donne di partito e di governo tacciono. Invece, dopo aver annunciato contestualmente al Jobs Act anche queste innovazioni, e dopo non averle potute mantenere per oltre due anni, ora che la legge arriva, ecco che il partito democratico tace. Tace nonostante una vittoria parlamentare e politica resa chiara – ad esempio – dall’astensione dei 5 Stelle e dal voto favorevole di Forza Italia, che pur criticando non possono proprio votare contro una legge che, di fatto, va incontro alle esigenze di un pezzo della loro constituency elettorale.
Da questa vicenda, dunque, il Pd ha un po’ di lezioni da apprendere. Anzitutto, quando si fa una buona legge, una legge sentita e che riguarda bisogni veri, in tanti, nella scena politica, si trovano a inseguire. Proprio per questo, una legge come questa andava fatta prima, contestualmente al Jobs Act come allora si annunciava, trovando i soldi e la maggioranza, magari forzando la mano come si fece, allora, sulla nuova disciplina del lavoro subordinato e dei licenziamenti. Farlo allora, oltre che giusto e utile, sarebbe stato positivo dal punto di vista del consenso, perché questi diritti, radicandosi e diffondendosi nella pratica, avrebbe consolidato l’esperienza di una politica davvero attento alla vita delle persone, dei cittadini, dei lavoratori.
E va bene, è andata così. Meglio dopo che mai, si diceva. Ma perché adesso non parlarne? Forse perché il segretario non è più al governo, o perché gli spin doctor consigliano di andare a ramazzare Roma e la sindaca Raggi come priorità comunicativa? Consiglieremmo, sommessamente, un ripensamento. La legge è arrivata ad approvazione alla chetichella, ma può essere – finalmente – raccontata per la vittoria di buona politica che effettivamente è.
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