Legislazione

Gli Stati generali, alchimia generazionale

23 Novembre 2014

Obbedisco. In sintesi: rinchiudere Gli Stati Generali nella particolarissima categoria dell’”antirenzismo”, mi pare come guardare di fuori dal buco della serratura e convincersi che il mondo sia a forma di chiave.

Svolgimento; ogni italiano che si rispetti, nei suoi viaggi in paesi anglosassoni e nordici, ha legittimamente dubitato che quel cartoccio da un litro fosse bevibile; e, anzi, dato che l’obiettivo pareva essere il produrre uno scaldamani da passeggio, si è chiesto per quale motivo non lo riempissero d’acqua calda senza sprecare quel poco di caffè. Dopo avere per anni constatato che il nostro Paese, affezionato alle sue abitudini alimentari, non era un mercato ricettivo, si vocifera che quell’azienda per decidere del proprio eventuale insediamento stia osservando i mutamenti che qui avvengono. Pare guardino con attenzione alle dimensioni di un parametro: il crescente numero di partite iva. Luogo di lavoro cangiante, orari di lavoro mutevoli, abitudini alla giornata, vita a soggetto. Il perfetto punto di rottura anche culturale rispetto alle rigide consuetudini della pausa caffè alle 11 del mattino davanti alla macchinetta in corridoio.

Ho connesso questo fatto all’impressione tratta dai primi giorni di vita degli Stati Generali. Tanto i promotori quanto i brains mi sembravano inizialmente un patchwork di colori e culture decisamente interessanti ma molto variegate. Tecnologi, architetti, viaggiatori, insegnanti, giornalisti, tra cui faticavo ad individuare il filo conduttore, sebbene ne vedessi l’indubbio stimolo culturale. Già nei primi giorni, leggendo gli articoli di argomenti vari, pur uniti dai topics, ho tratto un’impressione opposta, ad altri evidentemente già chiara. Più che le amplissime differenze tematiche, da alcuni temi nodali (letture politiche, caso Cucchi, rapporto con la tecnologia, e così via), mi è parso vivido un comune sfondo ideale, un perimetro valoriale ampio ma identificabile. Non solamente una linea editoriale, ma un progetto culturale.

Non avrei mai pensato di ricorrere, in vita mia, alla categoria del “generazionale”, e “chiedo molto scusa” come diceva l’intellettuale paranoico di sinistra di Antonio Albanese, girando sulla giostra. Per quanto i tempi non apparissero mai maturi, invece, le percezioni statistiche della multinazionale e il prodotto culturale degli stati generali, mi pare mettano a fuoco una coincidenza, almeno in embrione, tra struttura e sovrastruttura.

I cambiamenti nel mondo del lavoro, la flessibilità-precarietà, la frammentazione dei percorsi di vita che stavano sempre per avvenire, sono avvenuti. Ideologie e rappresentanze del Novecento, che apparivano sempre vicine al crollo, sono crollate in uno sbuffo di polvere. Nella breccia nel muro è passato questo aggregato fluido e sgarrupato di persone, la “mia generazione”, che si è passata parola strada facendo e, ora, ha una sorta di suo mainstream all’incontrario, formato sul crollo degli altri mainstreams.

Un assieme di malfidenza, ma pure di ottuso entusiasmo; di realismo cinico sulle rovine del crollo, ma di inconsapevole ottimismo sulle prospettive della ricostruzione. Una sfiducia totale nella macchina e in chi la guida, o potrebbe guidare, ma una trasognata abitudine a parlare di dove si potrebbe andare. Insomma, un mainstream fatto di chiose e non adesione alle idee dominanti e a chi le ripete. Un punto di vista che forse, nell’attualità politica, può apparire come un “un antirenzismo di sinistra insieme un poco spaesato e un poco snob”.

Un punto di vista né-né, come è emerso in diversi articoli. In cui non sta, o non sta più, tuttavia, un mero punto di rinuncia ma l’affermazione di altro, che ormai assume forma e sostanza. Semmai si potrebbe sostenere che insito in questa visione stia uno scollegamento tra realtà e aspirazioni che rende difficile rappresentare questa porzione ora identificata di società e i suoi interessi e aspirazioni.

L’opportunità della non rappresentanza, tuttavia, la fuga nei populismi, funzionava bene se ai non rappresentati mancavano ideali, richieste organizzate, interessi, culture, in comune fra loro, e si affidavano ciecamente ovvero si rifugiavano nel privato sottraendosi alla democrazia. Il dato nuovo, a me pare, è che tale gruppo, questa generazione ora emersa, un minimo comune denominatore robusto lo condivide, eccome, e che gli interessi che esprime siano dirompenti anche perché sovente basilari.

E che cosa succederà, se i non rappresentati, ad un certo punto, saranno di più dei rappresentati? Davvero vorremo affidarci a un nuovo “ghe pensi mi”, per quanto duepuntozero? Davvero ci accontenteremo di bere un caffè da Starbucks, controllando le mails su una poltrona di finta pelle?

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